Il presepe dei rifugiati dove Gesù è una bambina africana

Lunedì 24 Dicembre 2018 di Vittorio Pierobon
Il presepe dei rifugiati dove Gesù è una bambina africana
VENEZIA - Il Bambino Gesù quest'anno a Marghera si chiamerà Salima, una bambina di sei mesi, figlia di Yousef e Faith due profughi provenienti da Ghana e Nigeria che hanno formato una famiglia. I nomi sono di fantasia, perché sono ancora richiedenti asilo e la loro posizione in questo momento per la legge è precaria. Quello della notte di Natale sarà un presepe multietinico, rappresentativo della realtà sociale della parrocchia. La maggior parte dei figuranti non avrà la pelle chiara. Ma saranno tutti cristiani, provenienti da varie parti del mondo. E il figlio di Dio sarà femmina, anche questo un segnale forte.Perchè uomini e donne sono figli di Dio alla stessa maniera.
 

CHIESE E MOSCHEE
«Altro che nascondere il presepe, io quest'anno voglio farò un presepe vivente con i rifugiati». Don Nandino Capovilla non vuole entrare in polemica con don Luca Favarin, il sacerdote padovano, che ritiene più evangelico rinunciare alla sacra rappresentazione. «Conosco personalmente don Luca e non mi permetto di giudicarlo, però credo che i segni della fede non debbano mai spaventare e tantomeno offendere qualcuno. Nella mia parrocchia c'è assoluta integrazione fra le religioni. Ci sono due moschee e l'imam viene spesso a trovarmi. Anzi per tradizione lui partecipa alla messa di Natale e porta gli auguri della sua comunità. Anch'io sono entrato più volte in moschea con il massimo rispetto».
La parrocchia è quella della Resurrezione alla Cita, rione di Marghera da sempre abitato da migranti. Prima gli italiani del sud, ora gli extracomunitari. Don Nandino, 56 anni veneziano, nessuna parentela con il cardinale Loris Capovilla, segretario di papa Giovanni XXIII, è un prete abituato a stare con gli ultimi. Il Vangelo lui lo pratica sulla strada e le porte della sua parrocchia sono sempre aperte. Non è un modo di dire. Aperte significa ospitare chiunque. Entri in patronato e ti sembra di essere in Africa con gente di colore che sbuca dalle varie stanze. Anche a messa la maggior parte dei chierichetti è di pelle scura.
«Non ci trovo nulla di strano. La Cita è un incrocio di popolazioni ed un magnifico esempio di convivenza. Pensi che il 40 per cento degli abitanti della mia parrocchia è musulmano. Non vengono a messa, perché vanno in moschea, però partecipano alle attività in patronato, alle feste, agli incontri». Don Nandino prende il cellulare e fa vedere decine di foto di vita parrocchiale: il bianco non è il colore predominante. «Guardi qui - dice sorridendo - siamo in India con il bramino. No, sto scherzando, è la sala del patronato che ho prestato alla comunità indiana per una loro festa. Queste invece sono donne eritree di religione ortodossa, che alla domenica pomeriggio si riuniscono in chiesa a pregare». 
IL METODO DON NANDINO
Un meticciato, come ama dire il cardinale Scola, che per don Nandino è il vero messaggio di evangelizzazione. Nella casa di Amadou (l'insieme del alloggi gestiti dalla parrocchia, intitolata ad un profugo che ce l'ha fatta) c'è posto per tutti. Si ritrovano attorno allo stesso tavolo etnie che in patria si fanno la guerra, c'è chi fa il segno della croce e chi usa un tappeto per pregare. «La religione non può dividere, è l'uomo che usa la croce come arma. Ne parlo spesso con il mio amico imam. Lui non ha niente contro Gesù Bambino. Anzi mi ricorda sempre che Gesù è un profeta che anche i musulmani riconoscono».
APRIRE LE PORTE
Il parroco non ama le polemiche, la fratellanza che lui predica significa anche perdonare e accettare le prove della vita. Ora si prepara ad allargare le porte di casa Amadou. «Temo che il decreto sicurezza porterà ad un forte aumento di migranti in strada. Faremo quello che sarà possibile. L'obiettivo è di dare un tetto a tutti, perché quella è la prima mossa per favorire l'integrazione. Noi cerchiamo di inserire nel tessuto sociale piccoli gruppi di 4-5 persone, avviandoli a qualche forma di lavoro che dia una certa autosufficienza». 
Il metodo don Nandino è semplice: prendere in affitto un appartamento e inserire un piccolo nucleo di profughi. Le case sono già diverse, la parrocchia fa da garante per l'affitto e interviene in caso di problemi. «Ma non ci sono molti problemi - rassicura il sacerdote - ho la collaborazione di parecchi parrocchiani, ci sono alcune persone specializzate in mediazione condominiale che ci hanno insegnato le tecniche di inserimento. Per prima cosa, quando arriviamo in un nuovo alloggio, organizziamo un aperitivo di condominio per farci conoscere. Poi i ragazzi cercano di rendersi utili facendo qualche lavoretto. Provi a girare per il quartiere e si accorgerà che qui il clima è sereno». 
Don Nandino vorrebbe allargare la distribuzione dei suoi ragazzi ad altre zone in provincia di Venezia o anche in Veneto e per questo è alla ricerca di altri appartamenti da affittare. L'integrazione non si ottiene con gli accampamenti come Prandina o Cona di fresca memoria, ma a piccole dosi.
«Forse qui a Marghera il tessuto sociale è più predisposto. Molti degli abitanti sono arrivati dal sud, negli anni della migrazione interna, ed hanno sperimentato sulla loro pelle cosa vuol dire lasciare la propria terra. Non è stato facile per i meridionali integrarsi. Ora sono loro, e i loro figli, che possono aiutare qualcuno che viene da un sud ancora più a sud».
Vittorio Pierobon
vittorio.pierobon@libero.it
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Ultimo aggiornamento: 25 Dicembre, 10:58 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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