Campiello, la verità della Vinci:
«La pazzia riguarda tutti noi»

Lunedì 12 Settembre 2016 di Sergio Frigo
Simona Vinci
VENEZIA - Il libro con cui sabato sera alla Fenice Simona Vinci si è aggiudicata il 54. Premio Campiello - "La prima verità", ed. Einaudi - è probabilmente il meno "campiellesco" non solo della cinquina finalista, ma di tutti i vincitori dell’ultimo quindicennio. La giuria dei 300 lettori popolari (che cambiano ogni anno, ma si può generalizzare sulla base dell’esperienza) di solito ama libri in cui la trama è predominante e la struttura immediatamente individuabile; meglio, poi, se il tema è accattivante.
Niente di più diverso, insomma, dal magmatico, erratico, durissimo racconto («ambizioso, esagerato, poetico», lo definisce lei stessa) dell’inumana prigione per malati di mente allestita in Grecia nell’isola-manicomio di Leros a partire dagli anni ’50, sfruttata contro gli oppositori dal regime dei colonnelli negli anni ’60 e ’70, scoperta e denunciata al mondo da un servizio della Bbc e dalle foto di Antonella Pizzamiglio alla fine degli anni ’80; un racconto, per di più, in cui il tema della pazzia finisce per invadere anche il privato dell’autrice, cresciuta a Budrio (dove le istituzioni psichiatriche, e i loro ricoverati, sono di casa), in una famiglia in cui il disagio psichico della madre ha finito per sfiorare anche lei: «In altri anni sarei finita io stessa in manicomio - dichiara con disarmante onestà - a salvarmi sono stati sette anni di analisi».
Ebbene, come ha fatto un romanzo così a raccogliere i 79 voti (su 280 votanti) sufficienti per lasciarsi dietro (a quota 64) la favorita della vigilia Elisabetta Rasy, con le sue crocerossine nel gorgo della guerra de "Le regola del fuoco" (Ed. Rizzoli), ma anche Andrea Tarabbia con "Il giardino delle mosche" (Ponte delle Grazie, 62 voti), Luca Doninelli con "Le cose semplici" (Bompiani, 41 voti) e Alessandro Bertante con "Gli ultimi ragazzi del secolo" (Giunti, 34 voti)? La spiegazione "aritmetica" sta nei fatto che i numerosi voti raccolti dai suoi "antagonisti" hanno contribuito ad abbassare il quorum necessario per vincere: ma la spiegazione più "profonda" la fornisce lei stessa, che tra l’altro è una veterana del premio, dov’è stata in finale nel 1998 (con "In tutti i sensi come l’amore"), e ha rischiato di vincerlo nel 2003 con "Come prima delle madri".
«Anche se tendiamo a tenerla distante, la pazzia riguarda ognuno di noi, perchè nessuno è "normale": tutti abbiamo momenti in cui non ci sentiamo adatti, periodi di depressione che diventano qualcosa di peggio se non sono ascoltati, anche se non abbiamo il coraggio di ammetterlo neanche con noi stessi, e di chiedere aiuto».
Come ha fatto a far superare questa paura al lettore?
«Credo che sia stato importante l’io narrante, che in parte coincide con l’autore, che tende la mano verso chi legge e riesce a portarlo dentro queste vicende, facendogli ascoltare storie difficili da ascoltare. E poi si tratta di un libro scritto con sincerità e con passione, non con furbizia». 
Lei osserva che Leros, dopo gli psichiatrici e i dissidenti, ha imprigionato i profughi dal Medio Oriente...
«Stigmatizzare le persone, costruire muri e prigioni, è il modo con cui il potere gestisce gli indesiderati. La vicenda degli immigrati è altrettanto emblematica: molti di loro si portano dietro traumi che impiegheranno decenni, generazioni a superare. Ci sarebbe bisogno di sostegno psicologico, invece non garantiamo nemmeno l’accoglienza. Ma la questione è più generale: il potere costruisce muri anche lasciando le famiglie sole e allo sbando di fronte alla malattia mentale, logico che esse chiedano contenzione e medicine per i loro cari ammalati. La prossima cosa che intendo scrivere sarà incentrata proprio sul caotico funzionamento dei Centri di Salute Mentale».
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