Zocco, il super poliziotto della squadra mobile: «Quella volta che catturammo la banda di Maniero»

Venerdì 3 Marzo 2023 di Davide Tamiello
Fabio Zocco

VENEZIA - Dall’omicidio Marco Biagi a Felice Maniero, da Unabomber all’operazione San Michele. Una carriera lunga 36 anni, sempre tra le fila della squadra mobile di Venezia: la storia del commissario capo Fabio Zocco ha camminato fianco a fianco a quella delle grandi vicende criminali degli ultimi 30 anni.

Il 28 febbraio è stato il suo ultimo giorno di lavoro: dal 1. marzo, infatti, è in pensione. Per omaggiare la figura dell’investigatore, ieri, il questore Maurizio Masciopinto ha organizzato una festa di saluto a palazzo Labia, in cui è stato proiettato un filmato realizzato in collaborazione con la Rai per raccontare la carriera di un poliziotto che è simbolo di tutta una generazione di uomini e donne del corpo che, in questi mesi, stanno entrando nella cosiddetta “quiescenza”. Ad omaggiarlo c’erano colleghi ed amici, magistrati, carabinieri, finanzieri, e il direttore centrale dell’anticrimine Francesco Messina. 

C’è un momento della sua carriera che le ha dato più soddisfazione di tutti gli altri? 
«Direi la risoluzione del caso dell’omicidio di Marco Biagi a Bologna. Siamo stati là più di due anni, una bella indagine che ha portato i suoi frutti. Era la prima volta che venivano fuse in un’unica squadra digos e squadra mobile. L’allora capo della mobile di Venezia, Vittorio Rizzi (ora prefetto e vicecapo della polizia, ndr) mi portò con sé». 

Poi ci fu la banda Maniero. 
«Quando scappò venni mandato in missione in Turchia per più di un mese, perché si pensava potesse essere lì. L’altro ricordo che mi porto dentro è l’arresto della banda dopo che Maniero aveva deciso di collaborare. Il giorno prima del blitz, avevamo dovuto arrestare la frangia dei mestrini, per evitare ripercussioni. Li prendemmo a Olmo di Martellago, al bocciodromo. Ero stato io, per mesi, a pedinarli e a monitorarli». 
C’è anche qualche operazione più recente che metterebbe sul podio?
«Sicuramente l’operazione San Michele del 2018. Quella è stata una soddisfazione enorme: vedere tutti quegli spacciatori, che fino a poco prima facevano bello e cattivo tempo, messi in fila, ammanettati, con i residenti alle finestre che ci applaudivano e esponevano striscioni, è stata un’emozione. È stata la prova che lo Stato può vincere, se lo vuole». 

È un’operazione che servirebbe anche oggi? 
«Non lo so, non sta a me dirlo. Ma quel che è certo è che si è dimostrato che l’istituzione è presente ed è forte, e che se ognuno fa la sua parte il risultato arriva». 

È dura lasciare dopo così tanto tempo? 
«La vita è fatta di periodi, il mio qui è finito. Ho avuto la fortuna di trasformare la mia passione in un lavoro, io in pratica non ho mai lavorato un giorno nella vita: per me era una missione. Ora è giusto dedicarmi a chi per tutti questi anni ha patito gli effetti di questa mia scelta».

Un momento che l’ha segnata è stato la morte del suo collega Totò Lippiello, ucciso nel 2000 da un proiettile vagante durante un inseguimento di un trafficante di droga. 
«Eravamo due fratelli, sempre insieme fino a quella maledetta notte. Era in ferie, ma sapevo che se non l’avessi avvisato di quell’operazione non me l’avrebbe perdonato. Rientrò e venne al lavoro: doveva essere in macchina con me ma mi disse: «No no voglio andare con quelli più giovani», voleva poter essere una guida per loro. Fu una tragedia, suonai io il campanello di casa. Quando la moglie sentì la mia voce cominciò a urlare disperata, aveva capito subito che era successo qualcosa». Che cosa direbbe a un giovane che vuole iniziare il suo lavoro? 
«Che questo è l’unico mestiere che può realizzare dei sogni. La polizia è una famiglia, la squadra mobile una religione. Se sei pronto ad accettare questi comandamenti, sei il benvenuto».

Video

Ultimo aggiornamento: 4 Marzo, 11:49 © RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci