Pietro Buratti, il poeta irriverente che dedicò i versi anche ai baicoli

Lunedì 28 Novembre 2022 di Alberto Toso Fei
Pietro Buratti nel disegno di Matteo Bergamelli

VENEZIA - Contessa, aprovela? / Va ben cussi? / Viva el Baicolo / Ripeto mi! / Viva el Baicolo / Risponda i cori, / Gabbia el Baicolo / I primi onori!.

Sebbene non sia certo il suo lavoro più significativo, come spesso accade nelle vite di artisti e letterati, un unico episodio finisce per segnarne l'intera esistenza. Accadde anche a Pietro Buratti che - nato nel 1772, morto nel 1832 - fu poeta e irredentista; che scrisse poesie licenziose e finì nei guai con le autorità francesi e austriache; che in gioventù dissipò capitali in vino, gioco e donnine e nel 1816 - a 44 anni, morì a 60 - sposò la sua governante con la quale ebbe quattro figli. Buratti improvvisò i versi dedicati al celebre biscotto veneziano nel salotto della contessa Caterina Querini Polcastro, dove fu sfidato a declamarli - lì per lì - dal conte Palfy, governatore ungherese a Venezia. Secondo Vittorio Malamani, biografo di Buratti, ebbe un tale successo, che coloro i quali in passato avevano avuto con lui motivo di ruggine.

Furono i primi a dargli la mano ed a riconciliarsi. I motivi di ruggine consistevano, soprattutto, in alcuni altri suoi versi, in primis Elefanteide. Ma procediamo con ordine.
Pietro Buratti nacque a Venezia il 13 ottobre 1772 da Petronio Buratti e dall'olandese Vittoria Van Uregarden: la famiglia del padre, di origine bolognese, si era trasferita a Venezia da parecchi anni per aprire una banca, con ottimo profitto. Nonostante ciò, la sua educazione fu modesta e superficiale, lasciandogli in eredità il solo interesse per la poesia. A diciott'anni entrò come fattorino e copialettere presso il banco di famiglia, dove rimase controvoglia fino ai trent'anni, dedicandosi nel restante tempo libero a frequentare teatri e caffè, bische e bordelli.
Distrazioni che non gli impedirono di coltivare sempre di più l'attività poetica, sorretta da verseggiare salace che gli procurò una fama meritata di pungentissimo poeta in lingua veneziana. Alla caduta della Repubblica, nel 1797, si rifiutò di seguire la famiglia a Bologna e rimase a oziare tra salotti e teatri potendo godere di un assegno di duemila ducati, adulato e temuto per l'arguzia spesso sboccata delle satire che scriveva a getto continuo. Di politica si occupò di rado, ma quando lo fece fu caustico come sempre, più per la sua natura incontrollabile che per reale convinzione, pagandone le conseguenze.
Nella Lamentazione al prefetto di Venezia nel blocco dell'anno 1813-14 scrisse Per la Patria, che Regina / del so mar un dì xe stada, / finché un beco da rapina / sensa corno l'ha lassada: il corno era il corno dogale, naturalmente; il becco da rapina nientemeno che Napoleone Bonaparte. Erano gli ultimi giorni della seconda dominazione francese, e la satira gli costò un mese di prigione.

Nell'agosto del 1816 decise improvvisamente di sposare la sua governante, Arcangela Maria Brinis, dalla quale ebbe quattro figli: Petronio, Cornelia, Vittoria e Antonio. La sua mutata condizione familiare, unita alla morte del padre e alla riduzione delle sue entrate gli suggerirono di dedicarsi a una vita meno dispendiosa: acquistò un podere a Zero Branco (nel trevigiano) e successivamente una villa a Sambughè (accanto a Preganziol e Mogliano Veneto), dove si ritirò per soggiorni sempre più prolungati. Intimato, anche a seguito di alcune querele, a non scrivere ulteriori versi satirici, venne meno a ogni proposito nel 1819, quando l'uccisione di un elefante fuggito da un caravanserraglio dentro la chiesa di Sant'Antonin gli fornì il pretesto per scrivere il poema eroico Elefanteide, nel quale le autorità austriache (incluso l'imperatore Francesco I) ne uscirono ridicolizzate. Il risultato fu un nuovo mese di carcere. Promise di non sbeffeggiare più nessuno, e dopo l'episodio conciliante dei versi sul baicolo fu creduto, anche quando alcune sue opere furono ristampate - effettivamente - a sua insaputa.
Nonostante ciò, quando morì improvvisamente a Mogliano, il 20 ottobre 1832, le autorità austriache non esitarono a irrompere a casa sua, prelevare sacchi interi di manoscritti e distruggere ogni cosa. Per fortuna un suo amico, Matteo Da Mosto, aveva già raccolto e trascritto ogni cosa.
 

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