Paolo Sarpi, il frate che osò sfidare il Vaticano

Martedì 4 Settembre 2018 di Alberto Toso Fei
Paolo Sarpi, il frate che osò sfidare il Vaticano
Giovanni Battista della Porta lo definì “splendore ed ornamento non solo della città di Venezia e dell'Italia, ma di tutto il mondo”. Galileo Galilei – che gli era amico e ne ricevette preziosissimi consigli nella realizzazione del suo telescopio non esitò a dire: “Paolo de' Servi... del quale posso senza iperbole alcuna affermare che niuno l'avanza in Europa in cognizione di queste scienze”. Altri lo definirono “il più grande dei veneziani” e “la Fenice del suo tempo”. Oggi fra Paolo Sarpi è ricordato soprattutto per la sua difesa strenua delle ragioni della Serenissima contro l'interdetto papale del 1606, al quale Venezia – per bocca sua – rispose che mentre le questioni spirituali dovevano essere demandate al papa, quelle temporali spettavano ai governi.



Il dissapore, in realtà, covava sotterraneo da tempo: sebbene dichiaratamente cattolica e assolutamente fedele al “suo” san Marco, Venezia mantenne sempre un fortissimo grado di autonomia dalle gerarchie vaticane e dai vincoli imposti dalla chiesa. Una indipendenza mal tollerata da Roma, che approdò alla rottura: alcune leggi della Repubblica circa i beni ecclesiastici, e il fatto che due preti – rei di delitti comuni – furono processati dal Consiglio dei Dieci secondo le leggi dello Stato (malgrado le proteste del nunzio perché venissero rimessi al giudizio del foro ecclesiastico) diedero al Paolo V il pretesto per lanciare, nell’aprile del 1606, l’interdetto.

Decisa a non subire alcuna menomazione in materia di leggi, Venezia aveva risposto per bocca del suo doge Leonardo Donà che, nata in libertà, non intendeva render conto a nessuno nelle cose temporali, riconoscendo come unico suo superiore il Signore Iddio. In città fu vietata la pubblicazione delle bolle pontificie, fu ordinato che in tutto il dominio le chiese rimanessero aperte e furono banditi quegli ordini religiosi – come i Gesuiti – che si rifiutarono di obbedire. In pari tempo, il governo veneziano si professò rispettoso verso la fede cattolica, affermando – con il sostegno del frate – che l’ossequio alla dottrina religiosa non poteva essere in contrasto con le leggi dello Stato.

Nato a Venezia il 14 agosto 1552 come Pietro Sarpi dal mercante di lontane origini friulane Francesco di Pietro Sarpi e dalla veneziana Isabella Morelli, dopo la morte prematura del padre fu allevato con la sorella Elisabetta nella casa dello zio materno Ambrosio Morelli, prete della collegiata di Sant'Ermagora. Accolto quattordicenne nell’Ordine dei Servi di Maria, acquisì un vasto ed eclettico sapere che lo portò a studiare – oltre al latino e alla teologia – anche la filosofia, la matematica, il greco e l’ebraico. Nella sua attività di anatomista gli sono attribuite la scoperta della dilatabilità della pupilla sotto l'azione della luce e le valvole delle vene.

Fu storico del Concilio di Trento (sebbene i suoi scritti finirono all'indice assieme a quelli di Dante, Telesio, Erasmo da Rotterdam, Rabelais e Machiavelli). Assurto a importanti cariche nell’Ordine – malgrado due denunce all'Inquisizione – divenne consultore della Serenissima e riferimento per il cosiddetto partito dei “Giovani”, una intera generazioni di patrizi che si distinse per le idee innovative, e si trovò dunque a sostenere la sua Venezia nel braccio di ferro contro la Chiesa dei papi. L’interdetto fu levato un anno dopo, il 22 aprile 1607: Venezia continuò a legiferare in materia di beni ecclesiastici, a giudicare i preti colpevoli, e si mantenne sempre gelosa dei suoi diritti di fronte al pontefice (fedele al suo motto “prima veneziani, poi cristiani”).

Ma la sconfitta diplomatica non fu digerita negli ambienti vaticani.
Ai piedi del ponte di Santa Fosca, il 5 ottobre di quell’anno, Paolo Sarpi fu aggredito da cinque sicari e ferito gravemente a colpi di stiletto (“agnosco stilum Curiae romanae”, spiegò con spirito quasi umoristico al chirurgo che gli estraeva dal volto l'arma rimasta incastrata). Ma sopravvisse. Morì il 15 gennaio 1623, dopo aver esclamato “Orsù, andiamo dove Dio ci chiama!”. Fu sepolto nella chiesa dei Servi e i suoi resti furono trasferiti nella chiesa di San Michele in Isola dopo l'abbattimento dell'intero complesso conventuale. Una sua statua, una delle poche presenti in città, si erge in campo Santa Fosca.

 
Ultimo aggiornamento: 5 Settembre, 12:44 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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