Ottavia Piccolo, veneziana d'adozione con casa al Lido: «Qui la gente mi vuole bene»

Domenica 8 Agosto 2021 di Alda Vanzan
Ottavia Piccolo, veneziana d'adozione con casa al Lido
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VENEZIA - 1963, Luchino Visconti dirige Il Gattopardo, che a Cannes avrebbe vinto la Palma d'oro come miglior film, e a riprese finite il cast si commiata.

Saluti, abbracci, dediche. Ci sono Alain Delon, Claudia Cardinale, Terence Hill. E Burt Lancaster che nella prima pagina del romanzo di Tomasi di Lampedusa lascia questa scritta per Caterina: Alla mia cara figlia. «Avevo solo 14 anni», racconta Ottavia Piccolo mentre sfoglia le pagine ingiallite del libro. Ottavia calca il set da quando era una bimba: vanta più di trenta film, altrettanti lavori per la televisione e il teatro, senza contare l'attività nel doppiaggio. Nel suo studio ricavato in una stanza al primo piano dell'aeroporto Nicelli al Lido di Venezia, a poca distanza dall'abitazione dove da anni ha deciso di vivere con il marito Claudio Rossoni, conserva gelosamente tutti i copioni. «Dal 1960 ad oggi», puntualizza. Una raccolta di memoria personale e di storia cinematografica e teatrale che continua ad arricchirsi: in autunno uscirà il documentario di Simone Marcelli Lo sguardo su Venezia, ma già a settembre sarà alla Mostra del cinema nel cast del film Welcome Venice di Andrea Segre.


Vien da dire che sarà l'unica attrice tra i protagonisti della 78. Mostra internazionale d'arte cinematografica a non doversi preoccupare di trovare un posto dove alloggiare al Lido visto che già ci abita. Quando calcherà il red carpet?
«Il 1° settembre, il film di Andrea Segre aprirà in prima mondiale le Notti Veneziane delle Giornate degli Autori. È una storia di fratelli pescatori della Giudecca, io sono la moglie del più grande interpretato da Roberto Citran, l'altro è Andrea Pennacchi».


Ormai è una veneziana: come si trova a vivere al Lido?
«Benissimo, la gente mi vuole bene, sono felice. È da 23 anni che abbiamo questa casa, ma è solo da sei anni che abbiamo deciso di lasciare Milano e di trasferirci definitivamente».


Com'è nata la decisione?
«Siamo venuti per la prima volta in vacanza nel 1976, mio figlio Nicola aveva un anno. Era stato mio marito, che negli anni Sessanta aveva lavorato al Gazzettino, a proporlo, disse che l'unico posto dove si poteva andare in ferie in agosto senza trovare la ressa era il Lido. Avevamo visto Morte a Venezia e abbiamo prenotato al Des Bains, eravamo entusiasti, solo che la prima sera, vestiti di tutto punto per andare a cena, ci hanno detto al ristorante non erano accettati i bambini. Insomma, abbiamo fatto quindici giorni chiusi in camera ogni sera, una bellissima camera, ma che tristezza. Però ho cominciato ad apprezzare il Lido, finché un giorno mio marito ha trovato un annuncio sul giornale: vendevano una casina a San Nicolò. Ed eccoci qui».


Quarant'anni fa era tutta un'altra Venezia, non c'era la monocultura turistica. Cosa pensa della trasformazione della città?
«Nei secoli, dopo le grandi epidemie, ci sono sempre stati dei rivolgimenti. Ecco, ora che stiamo vivendo una emergenza sanitaria bisogna prendere la palla al balzo per dire che Venezia e tutte le città d'arte non possono più vivere di monocultura turistica. Sennò muoiono».


Cosa bisognerebbe fare?
«Qualcosa si sta muovendo, vedo ad esempio che cominciano ad esserci case per gli studenti, poca roba, ma qualche segnale c'è. Non ancora, però, per favorire la residenza, ecco perché dico che chi affittava ai turisti dovrebbe avere degli incentivi per dare le case a chi vuole abitare qui. Anche perché la marea di turisti di una volta non tornerà più tanto presto. E con la pandemia sono cambiati anche i modi di lavorare, ha preso piede lo smart working, sono nati nuovi mestieri. Venezia sarebbe un laboratorio perfetto. Anche perché credo che non si tornerà più a come eravamo prima. Almeno, lo spero».


Cosa servirebbe?
«Una volontà politica forte. Non so quale possa essere la formula migliore, so però che a Venezia va liberalizzata la vita, bisogna fare in modo che si possa vivere in questa città. Le case, prima di tutto, ma non solo. Non si possono dare licenze per avere altri negozi che vendono mascherette, bisogna poter dire di no. Vuoi aprire un negozio di alimentari? Bene. Un ciabattino? Perfetto. Una sartoria? Anche cinese, svizzera, quello che ti pare, ma devono essere attività al servizio dei residenti».


Lei non sta alla finestra: a Venezia e al Lido la si è vista ai cortei contro le grandi navi contro le morti sul lavoro, alla marcia degli scalzi in segno di solidarietà dei migranti. Ha mai pensato di candidarsi?
«Me l'hanno chiesto, ma ho sempre detto no, la politica è un altro mestiere. L'errore che spesso si fa, soprattutto a sinistra, è pensare che una persona solo perché ha una popolarità e una visibilità in altri campi possa poi convogliare le energie. Non è così. Serve altro per fare l'amministratore, specie di una città come Venezia».


Cosa non le piace di Venezia?
«C'è una cosa che mi impazzire e che spero che con questa pandemia cambi. A Venezia esistono due Università che fanno fatica a parlarsi. E altre istituzioni importantissime come la Biennale, la Fenice, il Teatro Stabile Goldoni e altre duemila realtà culturali che preferibilmente vanno ognuno per conto suo. Vogliamo deciderci che il vecchio adagio l'unione fa la forza vale anche per la cultura?».


Che rapporto ha con la moda?
«A me piace spendere poco. Vado nei negozi monomarca, vedo cose anche belle, ma quando sento il prezzo in genere dico: siete matti».


Sempre stata così?
«Sempre, sono un po' tirchiarella. La cosa carina è che io e tutte le mie amiche facciamo il mercatino: ci scambiamo i vestiti. Di mio non butterei niente, ho ancora degli abiti di quando ero incinta di mio figlio. Che adesso ha quarantasei anni».


E sul red carpet alla Mostra del cinema?
«Dovrò comprare qualcosa o me la farò prestare da qualche amica, perché riguardando le foto di precedenti eventi o cerimonie mi sono resa conto che ho addosso sempre la stessa roba».


Come ha maturato la decisione di non tingersi più i capelli?
«Ho cominciato per lavoro, a teatro. Era un testo di Stefano Massini, Processo a Dio, facevo la deportata in un campo di sterminio. Dopo due anni di tournée, con i capelli così, ho detto: ma quando mai! In realtà un paio di anni dopo ho fatto una fiction e il regista sosteneva che i capelli bianchi fossero troppo trendy. Ho dovuto ritingermi, non mi riconoscevo più».


Il luogo in cui sta bene?
«Il Lido di Venezia. L'ho scelto. Quando mi allontano, mi manca».


Un aggettivo per descrivere suo marito.
«Me ne servono due: divertente, intelligente. Anche un terzo: pesante».


Un capo di abbigliamento che non indosserebbe mai.
«I tacchi col jeans».

Ultimo aggiornamento: 17:48 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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