Francesco Lamon porta l'oro a casa. Il papà: «Splendido regalo nel giorno del compleanno»

Giovedì 5 Agosto 2021 di Davide Tamiello
Giuseppe Lamon porta l'oro a casa. Il papà: «Splendido regalo nel giorno del compleanno»

MIRANO (VENEZIA) - Una mattinata di turno al lavoro in ospedale e un figlio dall'altra parte del mondo: detta così, non proprio i migliori presupposti per festeggiare un compleanno. Se sei però Giuseppe Lamon, e il figlio a centinaia di chilometri di distanza è quel Francesco con la medaglia d'oro olimpica al collo e un record del mondo in tasca, la situazione cambia radicalmente. «Mi ha dedicato la vittoria, un regalo più bello non sarei mai riuscito neppure a immaginarlo».

E invece è andata così: Francesco Lamon, l'apripista della squadra azzurra che ieri mattina ha fatto sognare l'Italia del ciclismo (ma non solo) trionfando contro la Danimarca in una finale testa a testa, dopo la vittoria non si è dimenticato delle 56 candeline sulla torta di papà e il primo pensiero è andato a lui. 


Giuseppe e mamma Martina sono persino troppo moderati. Sono felici, ma senza alzare i toni, senza sguaiati entusiasmi. Quella compostezza rigorosa, tipicamente veneta, quasi fosse una mancanza di rispetto per qualcuno trascendere un po'. All'ingresso della stradina di casa, in via Scortegara a Zianigo, solo una foto stampata da un giornale e un lenzuolo con i cinque cerchi. «L'hanno messo i vicini, non noi», sorride Martina con timidezza. È parlando di Francesco e della sua squadra, però, che si lasciano andare. «Non ci diceva nulla - raccontano - non voleva sbilanciarsi. In tutti questi mesi si limitava a un stiamo andando bene, un po' per scaramanzia un po' perché era bene che i risultati degli allenamenti rimanessero più al segreto possibile. Oggi però si può dire: puntavano al podio fin dall'inizio della spedizione e quel tempo sapevano bene di averlo nelle gambe». 


LE ORIGINI

Una passione che parte da lontano, quando Lamon era ancora Franceschino: in famiglia il ciclismo era una sorta di tradizione. «Il nonno - dice Giuseppe - era giudice di gara, lo zio correva. Quando era piccolino lo portavamo alle tappe del giro d'Italia». E mentre gli altri bambini sognavano Messi o Ronaldo, lui cresceva con il mito di assi della due ruote come Francesco Chicchi o Marco Righetto. «All'inizio faceva nuoto - racconta la mamma - ma poi ha capito che non faceva per lui. A quel punto è venuto da noi e ci ha detto: Vorrei correre in bici». Giuseppe, però, aveva qualche dubbio sul comprare una bici da corsa a un bimbo di 8 anni: a quell'età si cambia idea molto in fretta. «Allora gli amici dell'Uc Mirano gli hanno detto: Vieni a provare, la bici te la diamo noi. Da lì è iniziato tutto: ha avuto maestri che sono stati un po' come dei nonni per lui, l'hanno cresciuto e l'hanno iniziato a questo sport per cui era decisamente dotato. Fin da subito, infatti, ha iniziato a mietere un successo dopo l'altro. Vittoria dopo vittoria, è arrivato anche l'oro olimpico». 


LA PISTA

È stato proprio uno degli allenatori miranesi, Attilio Benfatto, a capire che quel ragazzo su strada non avrebbe dato il meglio. Su pista, invece, poteva diventare un campione assoluto. «Lo portava a quelle gare fin da bambino, poi ha scelto di seguire quella strada entrando nelle fiamme azzurre». Per il ciclismo Francesco ha fatto delle scelte importanti: lasciare la scuola, per esempio. «L'ha fatto in terza liceo, purtroppo - continua Giuseppe - ma era appena iniziata la sua avventura con la nazionale. Mi ha detto: Papà, questi colori non me li toglierò mai. Alla fine aveva ragione lui, dopo 11 anni quella maglia è una seconda pelle». Eppure, un anno fa sembrava tutto perduto. «Per un atleta di livello perdere un appuntamento come le olimpiadi è un dramma - aggiunge - ma Francesco è un ragazzo calmo, la sua dote principale è saper dominare le emozioni. Una qualità fondamentale se vuoi arrivare così in alto». 

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