«Io l'ultimo bambino uscito vivo
da Auschwitz, ho chiuso il cancello»

Lunedì 5 Marzo 2018 di Edoardo Pittalis
Oleg Mandic, 85 anni
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«Ho chiuso io la porta dell'inferno. Sono stato io l'ultimo bambino a uscire vivo da Auschwitz, ho sbarrato il cancello». Il bambino di ieri, Oleg Mandic, oggi è un signore di 85 anni, nato a Fiume italiana, famiglia triestina. Gira le scuole del Veneto per raccontare una storia che, dice, non deve mai essere dimenticata. A Loria, ai piedi del Grappa, accompagnato dall'assessore Alessia Andreola, ha mostrato ai piccoli alunni il numero tatuato sul braccio: 189488. «Questo numero è la maggiore onorificenza che abbiano potuto inventare per me».
Come incomincia la storia dei Mandic?
«Mio nonno Ante si era innamorato di una russa che era la segretaria del console generale dello Zar a Trieste. Nel 1905 lei è tornata a San Pietroburgo, lui l'ha seguita, sono tornati sposati, con grande scandalo in famiglia, perché il nonno era nobile e la moglie per giunta una non cattolica. Mio papà Oleg è nato nel 1906. Poi si sono trasferiti ad Abbazia nell'attuale Croazia. Ante aveva un sogno: fondare uno stato slavo sulle macerie della Grande Guerra. Ma a guerra finita si accorse che le cose non erano andate come le aveva immaginate, ha lasciato la politica, ha aperto uno studio di avvocato e ha costruito la villa Mandic che c'è ancora».

Nella Fiume degli Anni Trenta come è stata l'infanzia di Oleg?
«Nella mia famiglia ci chiamiamo solo Oleg: mio padre, io, mio figlio. È rimasto Oleg anche quando a Fiume il fascismo proibiva nomi stranieri. Ho frequentato la scuola italiana Regina Elena, un'infanzia felice fino al 1937, quando il fascismo espulse mio nonno che era sempre sotto controllo della polizia. Anche mio padre ebbe problemi come avvocato perché non aveva la tessera del Partito fascista. Ero un bambino e mi resi conto che le cose erano davvero cambiate solo dopo l'8 settembre 1943, quando villa Mandic divenne un deposito di armi per i partigiani. Poi arrivarono i carri armati tedeschi».

Perché è finito ad Auschwitz?
«Con mia madre e la nonna siamo stati arrestati il 15 maggio 1944 e imprigionati per due mesi nel carcere triestino del Coroneo, da dove i condannati a morte partivano per la Risiera di San Sabba. Ci interrogarono un tedesco e un italiano in uniforme. La nonna era sorda come una campana e gli interrogatori erano assurdi: dovevamo tradurre l'italiano e il tedesco alla nonna in gesti. Quando furono certi che la nonna non sentiva, lei propose che le scrivessero le domande: lo facessero pure in italiano, tedesco, russo, inglese, lei era poliglotta. Alla fine l'ufficiale delle SS ci disse che sapevano tutto, che un giornalista di Radio Londra aveva parlato della sua amicizia con mio nonno che collaborava con i partigiani di Tito. Siamo stati deportati il 14 luglio e in tre notti e due giorni trasferiti a Birkenau. Ci hanno caricato su un carro merci, eravamo una settantina, si stava seduti l'uno sulla spalla dell'altro, molti sono morti in viaggio. Siamo entrati all'alba ad Auschwitz, hanno diviso gli uomini dalle donne, poi ci hanno denudati, io ero in mezzo a ottocento donne. Infine, ci hanno dato una striscetta di tela sulla quale era scritto il numero che veniva tatuato sul braccio».

Come ha fatto a sopravvivere?
«L'ottanta per cento per fortuna, il 15 grazie all'amore materno, il resto per doti personali. Non dimentichiamo che non ero ebreo e questo elemento ha aumentato le possibilità di salvezza. La fortuna l'ho avuta subito: nel momento della selezione sarei dovuto andare nel reparto uomini perché avevo superato i 10 anni, invece nella confusione sono rimasto con mia madre e la nonna».

Si è trattato davvero soltanto di fortuna?
«No, ha giocato a nostro favore il fatto che siamo stati poco meno di 7 mesi nel campo di sterminio. I nazisti avevano programmato ogni cosa: con quel regime alimentare si poteva sopravvivere al massimo otto mesi. Migliaia di anni di progresso erano serviti a costruire un'industria che su un nastro trasportatore ti dava il prodotto finito: la morte. Vedevo almeno mille morti al giorno, il loro orologio biologico terminava esattamente quando i nazisti avevano programmato. Dopo due mesi ero nel reparto gemelli del dottor Mengele e, paradossalmente, è stata un'altra fortuna: lì mangiavo, nessuno mi cercava e Mengele si interessava solo ai gemelli. In quattro mesi non l'ho mai sentito alzare la voce, però non sapevamo cosa facesse: nel reparto c'erano sempre una ventina di coppie di gemelli, andavano via e non tornavano. Ma a Auschwitz era la normalità non tornare. Io sono entrato nella psicologia dei centomila internati giornalieri che avevano come traguardo svegliarsi vivi la mattina. Era quella la vera fortuna.

I giorni della liberazione?
«Il 18 gennaio 1945 i tedeschi, prima di abbandonare il campo perché stavano arrivando i russi, si trascinarono appreso ottantamila prigionieri. Siamo rimasti in 7500, i russi quando sono arrivati ne hanno trovati meno di quattromila. Si moriva lo stesso, c'è chi è morto per aver mangiato troppo. La notte del 27 gennaio mi sono svegliato e al centro della baracca, davanti al fumaiolo di mattoni, ho visto un nugolo di donne attorno a un soldato russo che sembrava una specie di santo. Mia madre e mia nonna erano con me, vivi e liberi».

Quanto avete impiegato per tornare a casa?
Quattro mesi. Mi chiedo anche adesso come tra due milioni di deportati sia stato l'ultimo a uscire? Ancora una volta è stata la casualità. Il giorno dopo la liberazione abbiamo cercato un ufficiale russo che capisse la nostra lingua per chiedergli di mandare un telegramma allo stato maggiore di Tito e avvertire il dottor Mandic che la sua famiglia era viva e libera a Auschwitz. Qualcuno lo ha fatto e dieci giorni dopo arriva al campo un colonnello russo che andava in giro accompagnato da un operatore a cercare la famiglia Mandic».

E' più tornato ad Auschwitz?
«Sì, dopo 25 anni e mi ha fatto una grande impressione vedere sullo schermo della sala del museo il documentario nel quale c'ero anch'io con la mia famiglia, ripresi dall'operatore al seguito del colonnello sovietico. Sono convinto che si debba conservare questa memoria, da dieci anni vado nelle scuole e nei paesi a raccontare la mia storia, il giornalista triestino Roberto Covaz ha scritto anche un libro su di me, edito dalla Biblioteca dell'Immagine. Più che le mie due patrie, l'Italia e la Croazia, è stata la Polonia a darmi la più grande onorificenza: per aver portato in tutto il mondo la verità su Auschwitz, ha detto l'allora Presidente Walesa».

Cosa è per lei il Giorno della Memoria?
E' il mio compleanno, sono rinato il 27 gennaio.

    
Ultimo aggiornamento: 09:48 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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