Mauro Numa, il capione olimpico della grande scuola di Mestre, tornato a fare il carabiniere

Lunedì 16 Dicembre 2019 di Edoardo Pittalis
Mauro Numa, il capione olimpico della grande scuola di Mestre, tornato a fare il carabiniere
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MESTRE - La colpa è dei vicini di casa che non ne potevano più di quel bambino troppo vivace che rompeva a pallonate i vetri delle finestre alla periferia di Mestre. Così decisero di rivolgersi ai genitori per suggerire di far praticare un'attività sportiva al piccolo Mauro. Il padre, impiegato dell'Ufficio imposte di fabbricazione, pensò alla ginnastica o alle arti marziali; Mauro entrò per sbaglio nella palestra della scherma, vide due fiorettisti in pedana e rimase incantato. Il maestro, il grande Livio Di Rosa, lo fermò: «Non siamo un asilo, torna tra un anno». Il bambino si ripresentò. Tutto è incominciato così ed è finito con due medaglie d'oro alle Olimpiadi, quattro titoli mondiali, un numero imprecisato di vittorie internazionali.
Mauro Numa, mestrino, 58 anni, è uno dei grandi nomi della scherma mondiale. Due figli grandi, nessuno lo ha seguito in pedana. A 16 anni era già nella Nazionale maggiore, a 17 campione del mondo della categoria Giovani, a 20 vicecampione assoluto del mondo a Roma, piegato all'ultima stoccata dal sovietico Romankov. Quella edizione si tinse di sangue, l'asso russo Vladimir Smirnov morì dopo l'incontro col tedesco Mathias Beher: la lama si ruppe, entrò nell'occhio e perforò il cervello. «La Russia vinse il mondiale a squadre battendosi alla morte in nome del loro compagno».

 

Ma la storia è incominciata proprio per le proteste dei vicini esasperati?
«È vero, ero un bambino vivacissimo, facevo molto chiasso e tanti danni. Così i vicini hanno consigliato a mio padre Benito e a mamma Caterina di trovare un sistema per sfogare la mia esuberanza. Sono nato a Carpenedo e giocavo nel cortile di casa e nella strada con mie sorelle Patrizia e Laura. Ho scoperto la scherma al palazzetto di via Olimpia, in centro a Mestre, avevo sei anni. Ho deciso subito che quello sarebbe stato il mio sport».
Chi ha trovato a insegnarle la scherma?
«Il più grande maestro che potessi avere. C'era Livio De Rosa arrivato da pochi anni al Circolo mestrino nato dai fuorusciti dal Circolo della spada di Venezia. Era stato prima in Egitto dove aveva insegnato scherma al re Faruk, corpulento e gaudente. Per quelli della mia generazione, che andavano a letto dopo Carosello, lo sport era il divertimento. Di Rosa ha deciso in qualche modo il mio destino. Era un genio della scherma, se oggi è uno sport moderno è perché l'ha reinventato lui. Era burbero, senza peli sulla lingua, non era mai contento, anche quando vincevi ti diceva: Potevi tirare meglio!. Tanti suoi allievi oggi insegnano con successo in tutto il mondo. Era un generale e un padre rispettato, era il patriarca. Uno dei motivi della sua grandezza stava nel fatto che non insegnava la scherma a tutti nella stessa maniera: sviluppava il lato migliore di ognuno. Venivano da ogni parte del mondo per studiare il metodo mestrino, anche i francesi che erano presuntuosi. Si chiedevano come potesse esserci una scuola di tale livello in questa cittadina industriale che era considerata periferia di Venezia. Lui diceva: Qui coltiviamo pomodori sul cemento. Un anno al Gran Premio Giovanissimi Mestre vinse in tutte le categorie!».
Per Di Rosa, livornese nato nel 1912 e fratello di un campione olimpico, la scherma era la strada per la semplicità e per la felicità. È morto nel 1992: la sua era la scuola più titolata del mondo.
Come è stata la prima vittoria?
«Ho vinto il campionato italiano allievi a 14 anni e sono entrato in Nazionale a 15, convocato a Parigi per le gare di Coppa del Mondo: è stato entusiasmante, ero un ragazzino, l'idea di poter girare il mondo spesato era eccitante. Allora studiavo ragioneria all'Astori di Mogliano. L'anno dopo ho vinto la Coppa del mondo agli assoluti e il campionato del mondo Under20. In Nazionale ci sono rimasto fino a quando ho smesso, nel 1992, dopo le Olimpiadi di Barcellona».
E l'emozione più grande?
«Sicuramente l'Olimpiade di Los Angeles del 1984. È l'atmosfera, l'attenzione che circonda la gara, tutti gli sport sono considerati pari. Poi il fascino del Villaggio olimpico, conosci i campioni di altri sport che magari hai visto solo in televisione. Vinci e ti senti al settimo cielo. Io dopo la vittoria non ho dormito per qualche notte, come se non volessi svegliarmi dal sogno. Vincere un'Olimpiade è restare nella storia dello sport e di una nazione. Non è stato tutto facile, nel girone ho rischiato, ho dovuto rimontare, in finale mi sono trovato l'italiano e compagno di squadra Cerioni, poi il tedesco Behr per la finale. Mi sono sempre trovato in svantaggio, è finita 12 a 11 per me alla stoccata decisiva. Quella volta arrivò anche l'oro a squadre con Cerioni, Cipressa, Borella e Scuri; in quattro venuti da Mestre, Scuri da Livorno! Abbiamo battuto in semifinale la Francia e in finale la Germania. Le altre due Olimpiadi non mi hanno visto protagonista: nel 1988 sono arrivato quinto, nel '92 ero stanco, appagato, avevo deciso di smettere a neanche trent'anni. Nel 1990 con la vittoria del mondiale a squadre ho conquistato l'ultimo trofeo internazionale».
I più forti avversari affrontati in pedana?
«I sovietici Romankov e Smirnov erano fenomeni. Però, la nostra squadra era fortissima, stellare, era talmente forte che non faceva entrare nessuno, in più la nostra è stata una Nazionale longeva. Se poi devo dire chi sono stati i più grandi italiani, ecco: Nedo Nadi e Edoardo Mangiarotti. Il primo ha vinto 5 ori nella stessa Olimpiade in Belgio nel 1920, il secondo 13 medaglie olimpiche in vent'anni. Irraggiungibili. L'Italia della scherma è sempre una garanzia per il Coni quanto a medaglie».
Cosa significa fare scherma?
«Tanti bambini oggi vengono in palestra pensando che la scherma sia un gioco, Zorro, la spada Non è così, richiede concentrazione, disciplina, ordine. È differente da altri sport: Bolt vinceva sempre perché era il più veloce; nella scherma tanti possono vincere, dipende da più fattori, soprattutto dalla continuità che è data dalla passione e dall'esercizio. Devi avere la concezione della misura e del tempo. Puoi insegnare la buona scherma, ma non come e quando colpire. Rispetto alla mia, la scherma è cambiata completamente: più dinamica, più basata sul fisico e molto meno tecnica. Non ci sono più i grandi maestri, le grandi scuole come quelle di Mestre e di Jesi. Oggi fai un corso e apri palestra, allora ci volevano anni e dovevi dimostrare di saper fare scherma in tutte e tre le armi».
Cosa fa oggi Mauro Numa?
«Oggi sono tecnico della Nazionale Under 20 femminile, sono appena rientrato da Bucarest per le gare di Coppa del mondo. Alleno questa ragazza di Noale, Martina Favaretto, che è vicecampionessa del mondo: non ci sono altre al suo livello, la attende la Nazionale assoluta. Nella scherma veneta vedo bene i giovani fiorettisti Stella e Velluti, e la Sinigallia che è tra le prime dieci italiane. Fare l'allenatore è molto più difficile che tirare di scherma. Un campione quando insegna deve spogliarsi e insegnare in maniera elementare. Di Rosa diceva sempre: Non pensare mai di essere arrivato. Ci vogliono pazienza e umiltà per farlo. Oggi alleno anche nella Antoniana Scherma di Camposampiero dove ci sono una quarantina di iscritti, già qualcuno è andato in finale nazionale degli Under 14».
Rimpianti per uno che ha vinto la medaglia d'oro alle Olimpiadi?
«Nessuno, non vivo di ricordi: sono Mauro Numa, ho fatto l'atleta e ora sono Mauro Numa tornato nella normalità e non mi è pesato. Sono un carabiniere in pensione, ho svolto la mia attività nel Centro sportivo Carabinieri, ho fatto anche tre missioni tra Kosovo e Bosnia. Mi piace la scherma e lo faccio con passione, ma mi piace viaggiare in giro per il mondo e lo faccio appena posso, viaggiare è una delle cose più belle».
Edoardo Pittalis
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Ultimo aggiornamento: 18 Dicembre, 11:02 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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