Matteo Lovat, calzolaio e "crocifissore" di se stesso

Mercoledì 12 Febbraio 2020 di Alberto Toso Fei
Illustrazione di Matteo Bergamelli
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Nella sua vita Matteo Lovat compì almeno due gesti eclatanti. E già questo è molto: c'è chi ne compie uno soltanto, taluni nemmeno quello. È per questo motivo che lo si ricorda ancora. Poi, certo, bisogna anche andare a vedere di quali gesti si tratti, perché non tutti i gesti eclatanti sono fatti per essere emulati; per quanto, nel caso di Lovat, si debba provare una certa ammirazione se non altro per l'abilità: il 7 luglio 1805, nella sua casa veneziana di Cannaregio in calle de le Muneghe l'uomo, un calzolaio originario di Casale di Zoldo, nel bellunese, si crocifisse da solo.

Dopo essersi denudato, cinto il capo con una corona di spine e inferto una ferita nel costato con un coltello, Matteo Lovat riuscì infatti a inchiodarsi a una croce che aveva fissato con una fune a una trave di casa, in prossimità di una finestra, e si spinse fuori, pendendo e offrendo l’orribile spettacolo del proprio martirio ai passanti. Il medico Cesare Ruggieri, che transitava nei pressi, lo fece prelevare e portare all'ospedale. E su di lui scrisse un trattato destinato a diventare uno dei casi più antichi della letteratura psichiatrica europea.

Peraltro l'uomo, che in quel momento aveva 46 anni, un anno e mezzo prima aveva già effettuato un primo tentativo di autocrocifissione in calle de la Croce, ai Biri, utilizzando le tavole del letto che usava nella stanza presa in affitto da una donna, Osvalda D'Andrea, che comprensibilmente lo scacciò da casa. Nessuno a Venezia conosceva allora il suo segreto, il primo dei suoi gesti eclatanti, compiuto tra le sue montagne: ovvero il fatto che tre anni prima si era chiuso nella sua camera e con un coltello da calzolaio aveva eseguito “su se stesso la più perfetta evirazione” (come scrisse Ruggieri), gettando ogni cosa dalla finestra. Pare che a raccogliere “le recise parti” fosse stata sua madre, che in quel momento passava nella strada sottostante.

Un gesto folle, indubbiamente, ma come gli altri lucido e premeditato: aveva infatti già approntato tutto il necessario per medicarsi, preparando un impasto d'erbe che non solo avevano fermato l’emorragia, ma avevano fatto guarire la ferita presto e bene, senza che “gli rimanesse alcun superstite incomodo in quelle parti”. Ma per i compaesani era stato troppo, e Matteo Lovat aveva dovuto raggiungere il fratello Angelo a Venezia.

Eppure, fino a quel fattaccio del luglio 1802, non aveva commesso alcuna stravaganza: era considerato un uomo molto pio, non parlava che di chiesa, delle prediche che aveva udito, di santi e di digiuno, e insegnava anche ai bambini la dottrina cristiana. Non era un uomo felice: si era rassegnato controvoglia a fare il calzolaio perché la famiglia non era in grado di pagargli gli studi da prete ai quali avrebbe anelato, dopo che il cappellano del paese gli aveva insegnato a leggere e a scrivere. Una disillusione bruciante, che si fece ossessione e poi follia mistica, complice – forse – la “pellagra occulta” alla quale fecero riferimento i medici.

Una mania religiosa destinata a sfociare nell'autolesionismo che lo stesso Lovat motivò prima a Ruggieri, al quale rispose che “la superbia degli uomini doveva esser castigata, ed era perciò necessario che lui morisse in croce”, e poi in una lunga lettera scritta di suo pugno e indirizzata alla Direzione generale di polizia, nella quale dava ragione del suo gesto poiché non voleva che lo considerassero pazzo.

Nella lettera (ripresa integralmente e commentata anche dalla storica Lara Pavanetto in un suo libro, “Crocifissione di Matteo Lovat”) il calzolaio sembra far emergere anche una vicenda di gelosia, o comunque di forte disagio, verso i comportamenti di un altro uomo: “Abenchè giero presente ancor io che faceva queli medesimi in compagnia delle sue amante done e putte insieme faceva di balli scandalosi asai e lunghe tresche d’altri giovini con toccamenti de le mani: che da per me steso retristava l’anima mia a tali occhietij”.

Lovat guarì rapidamente e tentò di fuggire dall'ospedale perché “non voleva rimanere lì a fare niente e mangiare il pane”; fu trasferito sull'isola di San Servolo, allora ospedale dei pazzi, dove morì di tisi l'8 aprile 1806.
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