«Un milione per Marco, ma si muova lo Stato». Parla il padre di Zennaro, prigioniero in Sudan

Martedì 3 Agosto 2021 di Davide Tamiello
Cristiano Zennaro con il figlio Alvise
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VENEZIA - Cosa separa Marco Zennaro dalla libertà? Un milione di euro. Versando questa cifra come garanzia al processo civile in cui si è ritrovato coinvolto da metà marzo, il 46enne veneziano potrebbe lasciare il Sudan anche domani. E chi deve versarli questi soldi? La famiglia ha già fatto la sua parte ed è pronta a giocarsi tutto con un'ipoteca sul capannone dell'azienda, ma il passo fondamentale deve arrivare dallo Stato e dal ministero degli Esteri. L'ennesimo appello alle istituzioni arriva da Cristiano Zennaro, padre di Marco, rientrato ieri in Italia per questioni di visto e, soprattutto, per incontrare in settimana il direttore generale della Farnesina Luigi Vignali. Dopo tre mesi a Khartoum per affrontare una lotta quotidiana per il figlio, è tornato alla sua casa del Lido. L'affetto dei fratelli di Marco, Alvise e Gilda, e dei nipoti, sono la miglior medicina per ricaricare le pile: la battaglia non è affatto finita. 

Signor Zennaro, la prima domanda è abbastanza di rigore: come sta Marco in questo momento? 
«Non bene, continua a essere molto provato. È seguito da una psicologa, lo stress subito ha lasciato i segni».

Domenica è stato trasferito nella foresteria dell'ambasciata, come mai?
«Perché c'era stato un problema con l'assegno depositato a garanzia della causa intentata da una società di Dubai.

Sono gli 800 mila euro che abbiamo messo sul piatto noi: l'importo giornaliero era più alto dei massimali. Abbiamo dovuto quindi portarlo fuori dal tribunale per consegnarlo alla banca, e in questo periodo di vuoto c'era il pericolo che Marco venisse riportato in cella». 

Ora è da solo quindi?
«No, la moglie lo sta raggiungendo, adesso è tornato in albergo». 

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Marco non può tornare per due cause civili, forse è bene ricordarlo: i procedimenti penali a suo carico sono stati entrambi archiviati.
«Esatto. Il problema è che un procedimento civile può andare avanti anche cinque anni». 

Che cosa manca per riportare Marco a casa?
«Questo è un caso economico non politico. Marco è stato sequestrato per una questione di soldi. Noi abbiamo versato 800mila euro per garantire una copertura alla fine del processo della causa con la ditta di Dubai. Serve che il governo faccia lo stesso con la causa intentata dal miliziano Abdallah Esa Yousif Ahamed: tra garanzia e spese legali vuole 950mila euro».

Il caso è legato a una partita di trasformatori venduti a una società sudanese (che secondo l'acquirente sarebbero difettati) che era stata finanziata dal miliziano (a insaputa di Marco). 
«È un uomo ricco e potente. È lo zio di Mohamed Hamdan Dagalo detto Hemeti, il generale sudanese a capo delle milizie entrato nel governo di transizione. Con lui la trattativa politica non è servita a nulla». 

Lei, all'inizio, ci era anche andato a parlare per provare a trovare una soluzione, diciamo così, bonaria. Cosa vi eravate detti?
«Avevamo concordato che con una garanzia bancaria si sarebbe risolto tutto. Mi aveva detto: Marco domani esce dal carcere e va in albergo. Il giorno dopo ci ha ripensato e il suo segretario ha iniziato a tempestarmi di messaggi: Niente da fare, non se ne fa più nulla. Dovete pagare subito».

Ma come mai avete scelto di puntare sull'altra causa invece di risolvere questa, che è chiaramente quella più grave e che ha dato il La a tutta la vicenda?
«Perché ci era stato espressamente detto dalla Farnesina voi occupatevi di quella che a questa ci pensiamo noi, visto che c'è di mezzo un membro del governo. E comunque non era giusto riconoscere come interlocutore chi, in questa vicenda, come è stato dimostrato dal processo, non dovrebbe aver diritto di parola».

Sono stati commessi degli errori nella gestione di questa vicenda secondo lei?
«Tutto è girato male con l'arresto del 1. aprile. Marco è stato fermato in aeroporto, dopo aver pagato un primo riscatto di 400mila euro, senza nessun mandato di cattura. Nemmeno un atto ufficiale: è bastato un messaggio Whatsapp del miliziano: "È quello lì, dovete fermarlo". È inaccettabile che si lasci passare una simile violazione». 

Voi chiedete che sia lo Stato, quindi, a pagare?
«Sì. Noi siamo pronti a fare di nuovo la nostra parte e a mettere in gioco una contro-garanzia, mettendo un'ipoteca sul capannone della fabbrica. Ricordo che questo non è solo il dramma di Marco, ma anche di 26 famiglie, i dipendenti dell'azienda, che rischiano di rimanere senza lavoro».

Ultimo aggiornamento: 17:40 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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