Marco Zennaro a casa: «Tornare in Sudan? Abbiamo un capitale lì. No papà, mai sentito abbandonato dal governo»

Domenica 13 Marzo 2022 di Davide Tamiello
L'arrivo di Marco Zennaro a Venezia
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VENEZIA - «Come sto? Ha presente quelle facce da felicità astratta dei Santi negli affreschi delle chiese? Ecco, mi sembra di avere perennemente quell'espressione dipinta in volto». Marco Zennaro finalmente può rilassarsi.

Dopo un annus horribilis: un imprenditore con la passione per il rugby e il remo, padre di famiglia, attivo nelle realtà sociali della sua città, Venezia, finito improvvisamente in qualcosa che, fino al 16 marzo scorso, aveva visto solo al cinema.


Marco, finalmente è finita.
«Adesso sì. È stata lunga, una questione commerciale diventata una richiesta di riscatto nel tempo. Forse questa vicenda è stata un po' sottovalutata all'inizio e poi se ne è pagato lo scotto».


Quante volte ha ripensato a quel 16 marzo? Quante volte si è detto in questi mesi: «Ma perché ho preso quell'aereo»?
«Eh, tante volte. Poi, però, ho ragionato sul fatto che faceva parte della vita, della mia storia. I messaggi di supporto della gente, dei veneziani, degli amici e della mia famiglia sono serviti a darmi forza e a far crescere la mia autostima. Quello che ho fatto è in linea con il mio carattere: mi avevano detto che c'ero un problema e io mi ero dato da fare per provare a risolvere. Dall'altra parte, però, c'erano persone cattive».


Com'è stata questa prima giornata di ritorno alla vita?
«Appena sceso dall'aereo quando mi sono trovato davanti poliziotti e finanzieri ho avuto un piccolo choc. Per un attimo ho pensato e ora che altro c'è?. E invece loro erano lì per proteggermi».


Poi allo stadio. Come mai per prima cosa è andato a vedere la partita?
«Immagino che questa cosa abbia sorpreso molti (ride, ndr). In realtà è legato a una promessa: il direttore generale della Farnesina Vignali ancora quando mi aveva visto in commissariato a Khartoum, per tirarmi su, mi aveva detto che non dovevo preoccuparmi perché l'anno prossimo saremmo andati insieme a vedere una partita del Sei nazioni. Fatalità oggi era l'ultima data utile e ci siamo andati, tutto qua. È stato bellissimo, una emozione enorme».


A proposito di Vignali: suo padre ha avuto pesanti parole di critica nei confronti della Farnesina ma lei si è dissociato.
«Non si può chiedere a qualcuno ciò che non può darti. Se i mezzi di Vignali sono quelli non si può andare in guerra contro i mulini a vento urlando e pretendendo di avere un altro tipo di supporto. Capisco che mio padre abbia agito in un modo diretto per chiedere l'intervento dello Stato in una questione che ha poco di normale, voleva tenere viva l'attenzione sul caso. Ma io non mi sono mai sentito abbandonato dalle istituzioni: ero in ambasciata, si faceva il punto della situazione quotidianamente con la Farnesina».


In carcere c'è qualcuno che l'ha aiutata in particolare?
«Sì, un professore universitario iracheno. Mi ha supportato nei momento più duri che però devo dire la verità, non sono stati i peggiori in assoluto».


Davvero? Cosa ci può essere di peggio del carcere?
«La solitudine che ho affrontato dopo il colpo di Stato. Il carcere ti distrugge fisicamente, non riuscivo nemmeno a muovermi quando sono uscito. Però condividi l'orrore con altre persone, questo aiuta. L'isolamento è stato pesante dal punto di visto mentale, le due psicologhe che mi hanno aiutato, Lucia Ceschin e Anna Paola Borsa, sono state fondamentali».

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Anche il suo processo è stato decisamente stressante dal punto di vista emotivo.
«Dal punto di vista giudiziario la causa non esisteva. Hanno usato qualsiasi mezzo per posticipare la sentenza con un unico obiettivo: torturarmi. Per cosa? Per soldi. Quando si sono resi conto che quei trasformatori avevano un valore hanno cambiato idea, hanno preferito tenerseli e cercare un accordo. Anche perché i soldi noi li avevamo finiti, di più non avrebbero ottenuto».


È rimasto in piedi il processo civile con la ditta di Dubai. Quello per cui la sua famiglia ha pagato 800mila euro di deposito cauzionale. Contate di recuperarli?
«Proveremo a farlo, certo. Ma quando c'è la libertà si può fare tutto. In quelle condizioni non si riesce ad avere la lucidità neppure per fare la più semplice delle operazioni aritmetiche da terza media».


Tornerà a lavorare in Sudan?
«Abbiamo un capitale lì. Dei trasformatori da rivendere. E poi le sembrerà strano ma questo paese è riuscito a sorprendermi in negativo ma non del tutto. Ho sempre voluto girare il mondo per conoscerlo e per conoscermi. Continuo a dirmi che quello che mi è successo fa parte del gioco».


A casa ci sono sua moglie e i suoi figli, è arrivato il momento di riabbracciarli.
«A loro devo un immenso grazie. Il valore della famiglia mi ha tenuto in vita, e ora non vedo l'ora di tornare da loro».
 

Ultimo aggiornamento: 12:34 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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