Arrestato in Sudan, Marco Zennaro incontra l'avvocato che lo ha fatto liberare

Giovedì 16 Febbraio 2023 di Davide Tamiello
Marco Zennaro con il suo avvocato

VENEZIA - «Quando tutto sarà finito ti voglio far vedere la mia Venezia». Ogni promessa è un debito, anche se stretta in una cella buia e rovente di un carcere del Sudan. E in questi giorni Marco Zennaro, il 47enne imprenditore veneziano bloccato a Khartoum per quasi un anno a causa di una controversia commerciale diventata un vero e proprio caso di Stato, ha potuto tener fede al patto e riabbracciare in laguna l'avvocato che, negli undici mesi più difficili della sua vita, l'ha seguito, difeso, protetto e rassicurato. Per Ayman Abbadi, questo il nome del legale, non è stato un caso semplice: durante il processo ha subito diverse pressioni da parte dei potenti locali (nei giorni in cui Marco era prigioniero, i miliziani avevano preso il potere rovesciando il governo). «Quando eravamo lì non mi aveva mai detto nulla - spiega Zennaro - solo quando sono potuto rientrare in Italia, a cose concluse, mi ha confidato di quelle pressioni».
Abbadi sorride, ne parla ma preferisce non entrare nel dettaglio, concede solo una frase sibillina: «Diciamo che quando Marco è stato rilasciato, qualcuno è rimasto molto deluso».

Una visita di piacere, ma non solo: per chiudere definitivamente i conti pende ancora una causa civile con una ditta di Dubai. Quell'azienda che, accodatasi alla denuncia fatta dalla ditta del miliziano, accusava la ZennaroTrafo di aver venduto anche a loro dei trasformatori elettrici difettosi. «C'è questa situazione da risolvere, dovremmo essere alla fine, il processo al momento è in appello - aggiunge Marco - è importante arrivare a una quadra anche perché il Sudan ha bisogno di quei trasformatori, che adesso sono bloccati ancora da questo contenzioso. È merce pregiata: considerando il rincaro delle materie prime adesso valgono il triplo».


AMICIZIA
Tra Marco e Abbadi è nata una forte amicizia. «È il mio "ragazzo tosto" - confida con un sorriso il legale - io non ho mai dubitato che tutto si sarebbe risolto, ma era importante che Marco mantenesse i nervi saldi. C'è riuscito ed è stato incredibile, è venuto in Sudan e ha visto l'inferno: in una cella, d'estate, con altre trenta persone. È riuscito a mantenere la calma, non credo che sarei riuscito a fare altrettanto al suo posto». Per Abbadi la chiave di volta del caso è stata principalmente di tipo tecnico: «Fin da subito quel che stonava era che questo non doveva essere trattato come un procedimento penale, era al 100% una controversia civile - commenta l'avvocato - quelle persone hanno tentato di rapire Marco. Per me era inaccettabile pensare che quest'uomo venisse privato della sua libertà, della sua famiglia, per un procedimento civile». Il legale è rimasto impressionato, in particolare, dalla solidarietà ricevuta dall'imprenditore veneziano. «In 26 anni di carriera ho seguito molti casi, ho avuto a che fare con clienti di varie nazionalità. Marco era il primo italiano, e ho visto proprio un impatto diverso. Il supporto delle istituzioni, della città, del Paese».
In questi giorni, Ayman Abbadi e Marco Zennaro sono andati anche a Roma in visita di cortesia al direttore della Farnesina Luigi Vignali, "architetto" della trattativa diplomatica che ha portato alla rimozione del "travel ban" sul passaporto del 47enne, il bollino che, in pratica, impediva all'imprenditore di lasciare il Sudan. «Lo stesso Vignali - continuano - ci ha confermato che questo è stato un caso unico, che farà storia. Ci ha raccontato che nonostante la sua esperienza non aveva mai trattato in condizioni così difficili, con un governo appena rovesciato e con una controparte così dura e ferma nelle sue posizioni».


LA PROMESSA
C'è un'altra promessa che Marco ha voluto fare al suo avvocato. «Quando tutto sarà definitivamente finito, quando ogni pezzo sarà andato al suo posto, investirò personalmente per far ricostruire il commissariato di Bahri, il luogo della mia prigionia. Ho ancora dei flash, in cui ricordo di quando se ne andavano chiudendoci in quelle quattro stanze con una grata come soffitto. È disumano pensare di rinchiudere delle persone in condizioni del genere, non dovrebbe essere possibile. Per questo voglio dare il mio contributo perché nessuno debba più passare quello che ho provato io».

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Ultimo aggiornamento: 10:39 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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