Il regista Lucio Rosa, dal mal d'Africa al mal di Venezia

Martedì 20 Aprile 2021 di Fulvio Fenzo
Lucio Rosa

VENEZIA - Il Mal d'Africa («Una malattia da cui difficilmente si guarisce. Si esprime con un amore incondizionato per questa terra che mi ha dato anche molti amici. Una terra dai colori intensi e dai profumi assordanti») e il Mal di Venezia («che ho lasciato nel 1972, ma ho ancora una casa al Lido e sto preparando una mostra fotografica che voglio portare in Laguna»). 

Lucio Rosa vive e lavora tra Bolzano e Venezia, la sua città natale. Da oltre 50 anni è impegnato con la casa di produzione Studio Film Tv assieme alla moglie Anna, nella realizzazione di documentari cinematografici, reportage, programmi televisivi con una produzione di oltre 250 film spaziano dall'archeologia alla storia antica, dalla preistoria all'etnografia, da profili di personaggi all'arte. 
A giorni (il 1. maggio) compirà 81 anni, ma ha ancora voglia di rimettersi in viaggio per girare il mondo, e realizzare gli ultimi scatti per la mostra dedicata alla Città storica.
«La intitolerò Venezia a modo mio. Saranno cento immagini, rigorosamente in bianco e nero, sulla città che amo di più».

Venezia e, appunto, l'Africa. 
«L'uomo è nato in Africa, cioè noi siamo nati in Africa, e questo fin da giovane mi ha spinto a cercare, in questo grande Continente, chi siamo. Negli anni 70 ho iniziato una collaborazione con alcune Agenzie della Nazioni Unite su diversi progetti che loro finanziavano e sulla situazione di alcuni Paesi africani. Sono stato in Etiopia, Niger, Lesotho, Mali, Mauritania, Libia, Egitto, Eritrea... Ho quindi conosciuto l'Africa da dentro, con i suoi immensi problemi, e sopratutto la gente nella vita di tutti i giorni. Una vita durissima, spesso con la morte dietro l'angolo».

Da allora non l'ha più abbandonata. 
«Lo sbocco di tutto ciò non poteva non essere per me, regista cinematografico e giornalista, che la realizzazione di documentari e una ricca documentazione fotografica che ha dato vita, poi, a diverse mostre che continuerò a proporre. L'incontro più folgorante? Quello con i Pigmei Babinga nell'autunno del 1987, quando erano ancora gli unici ed indiscussi padroni della foresta. Restai lì per oltre 60 giorni per documentare gli ultimi istanti di un mondo che di lì a poco sarebbe scomparso. Mi colpì il loro bagaglio di conoscenze etologiche, dei caratteri e dei costumi di ogni specie di animali, le loro reazioni, le loro paure o la loro ferocia. Poi tutto è cambiato. Lo sfruttamento forestale nell'Africa equatoriale ha comportato l'apertura di numerose piste per il recupero ed il trasporto degli alberi abbattuti fino alle segherie poste lungo i fiumi. I Babinga, lusingati da una vita che può sembrare più agevole e abbagliati dal denaro di cui non afferrano il senso, sono usciti dalla foresta. Ho documentato tutto questo con i miei film e le mie fotografie».

Come si sente ogni volta che rientra dall'Africa?
«Per uno che ha l'Africa nel cuore, come è stato scritto su di me, testuale un veneziano con l'Africa nel cuore, è una sofferenza».

Il Covid ci ha fermati tutti. Oltre ad rientro a Venezia, tornerà ancora nel Continente Nero?
«Sento che la Libia mi sta aspettando.

C'è un film già scritto e la cui sceneggiatura, già stata accettata dal ministero committente, ma poi siamo stati costretti a bloccare tutto. Spero di poterlo riprendere al più presto. Come la mia mostra dedicata a Venezia».


 

Ultimo aggiornamento: 16:57 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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