I ricordi di Luciano Favero, l'ex calciatore operaio: «Con me Maradona non ha toccato palla»

Lunedì 17 Gennaio 2022 di Edoardo Pittalis
Luciano Favero ieri e oggi

SANTA MARIA DI SALA - «Mi manca non poter giocare.

Se non avessi fatto la protesi all'anca sarei ancora in qualche campetto a inseguire il pallone come quando ero bambino, se ce la facevo continuavo a rincorrere quel pallone. Ho giocato fino a 50 anni compiuti perché mi è sempre piaciuto».

Da bambino Luciano Favero scappava dai campi del padre contadino per giocare a pallone. A 16 anni è andato via da Santa Maria di Sala con in tasca il primo contratto con una società di calcio lombarda, l'anno dopo è partito per Messina: «Stipendio da dipendente con tanto di contributi e oggi sono un pensionato calciatore». Per quelli come lui non scatta Quota 100, basta avere 52 anni e naturalmente i contributi in regola.
Luciano Favero, nato nel 1957, una decina di stagioni in serie A tra Avellino, Juventus e Verona, con la maglia bianconera ha praticamente vinto tutto: uno scudetto, una Coppa dei Campioni, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa Europea e anche una Coppa Uefa. Vanta pure una promozione in A col Verona. Vladimiro Caminiti, che era un cantore del pallone, parlò del terzino veneziano come di un personaggio totalmente romantico e concluse: La Juve ha fatto un affarone acquistandolo. Sulla copertina di Hurrà Juventus lo presentarono come il Baffo. Era arrivato per sostituire Claudio Gentile, campione del mondo, lo chiamarono presto il terzino operaio, così quando contro il Napoli, Trapattoni lo incollò al Pibe de oro e gli riuscì di non fargli fare gol, i giornali sportivi titolarono: L'operaio che blocca Maradona.


Come è incominciata la carriera del terzino-operaio?
«Ero uno dei sei figli di Corrado e Bianca che avevano una mezzadria nelle campagne di Santa Maria di Sala. Io non avevo tanta voglia di studiare, vedevo sempre e solo il pallone, a volte non tornavo neanche a casa per fermarmi a giocare. Papà veniva a cercarmo perché aveva bisogno di aiuto in campagna, non sempre mi prendeva con le buone. Dopo la terza media ho incominciato a lavorare come metalmeccanico in una fabbrica del Miranese e giocavo in Terza Categoria nella Fenice Caselle da dove a 15 anni mi ha prelevato il Noale che era in Promozione. Al termine di quel campionato mi ha chiesto il Varese, in serie B, e a quel punto è iniziata davvero la mia carriera. I giovani venivano mandati a farsi le ossa tra i semiprofessionisti, così ho giocato un anno in serie D in Lombardia e poi in serie C a Salerno, Messina, da lì al Siracusa appena promosso in C1 e col quale abbiamo vinto la Coppa Italia. A novembre mi ha chiesto il Rimini in serie B e dopo pochi mesi ho vestito la maglia verde dell'Avellino, era il 1981, in porta giocava Tacconi, avevamo fatto il servizio militare assieme».


L'esordio in serie A?
«Contro il Napoli, il 22 marzo 1981, è finita 0-0: aveva un senso particolare, era il primo derby dopo il terremoto dell'autunno che aveva distrutto la Campania. Per me era già un sogno essere arrivato in serie A, con gli irpini ho fatto tre anni eccezionali, l'allenatore era Vinicio, un uomo al quale devo molto. Quell'Avellino era una squadra difficile da battere, eravamo salvi a sette giornate dalla fine. Il presidente Sibilia ci sapeva fare, Tacconi e Vignola sono andati alla Juventus un anno prima di me».


Ed ecco la Juventus di Boniperti e Trapattoni a metà Anni '80
«Con la Juve ho giocato più di 200 partite e per tre anni di fila non ho saltato una gara. Ho vinto tutto, ho pure fatto due gol che per me erano una rarità: uno a Udine nel 1985, l'altro a Torino contro il Pescara nel 1987. Quando abbiamo vinto l'Intercontinentale a Tokyo contro l'Argentinos Junior, ai rigori dopo i tempi regolamentari finiti 2-2, per me è stata una soddisfazione enorme, ero arrivato fin lì ed era qualcosa che non mi sarei mai aspettato. Il figlio di contadini che vinceva il titolo mondiale per club. Praticamente era come se volassi a un palmo da terra, non credevo a quello che stavo vivendo. Giocavo terzino destro, ma ho fatto anche lo stopper e all'occorrenza pure il libero per sostituire Scirea infortunato. Sono arrivato alla Juve nel 1984, Boniperti e Trapattoni cercavano un sostituto di Gentile andato alla Fiorentina e già questo bastava per bloccarmi. I primi mesi sono stati duri, ma ancora una volta la mia carriera si è incrociata col Napoli e il Trap mi mette in marcatura proprio su Maradona!».


E come è andata?
«È stata la mia partita più bella. Maradona era uno che se gli arrivava la palla non c'era più nulla da fare, Trapattoni aveva spiegato bene che bisognava non far arrivare la palla a Diego. Forse si ricordava della volta che lui aveva fermato Pelè. Poteva capitare a volte di riuscire a fermare Maradona e mi è riuscito».


I più grandi incontrati sui campi di calcio?
«C'erano molti giocatori forti, spesso stranieri. Con me giocavano Platini, Boniek, Laudrup. Platini gli davi la palla e sapeva sempre cosa fare, era tranquillizzante giocare con lui. E ricordo Juary: ogni volta che segnava ballava girando attorno alla bandierina. C'erano Rummenigge e Mattheus nell'Inter, il Milan dei tre olandesi, la Roma di Falcao, Socrates nella Fiorentina Era il campionato che aveva i migliori al mondo. Ma il più forte di tutti è stato Maradona, era di un'altra dimensione, di un altro pianeta. Oggi ci sono in circolazione Messi e Ronaldo, ma come Maradona non ce ne sono, non ne nascono neanche più».


Tra le sue esperienze c'è quella drammatica dello stadio Heysel
«Per me è stata terribile, ma lo è stata anche per tutti coloro che erano là, lo è stata per il calcio tutto che da quella sera non è più stato lo stesso. Noi quando siamo scesi in campo con un'ora di ritardo non sapevamo che c'erano morti, ci avevano detto che era caduto un muro, che la folla si agitava, che era meglio incominciare a giocare per calmare gli animi. E forse è stato un bene continuare. Quella Coppa dei campioni per noi è come se non ci fosse. Ogni volta che devo parlarne sento un dolore profondo. Troppa follia».


Gli anni dopo la Juventus?
«Sono stato due anni a Verona in A e in B, era l'ultimo campionato di Bagnoli in gialloblu e siamo retrocessi, con Fascetti siamo risaliti immediatamente nella massima serie. Mi sono trovato bene, Bagnoli sapeva soprattutto fare gruppo. Ho smesso nel 1991 appena tornato in A col Verona. Forse potevo andare al Venezia in B, mi hanno fatto capire che non c'era posto e ho smesso col grande calcio, sono tornato a casa e ho giocato fino al 1996 nella Miranese nel campionato Nazionale Dilettanti».


Come vede il calcio di oggi, al tempo del Covid?
«Un dramma, sia per i tifosi sia per le squadre stesse che vanno in campo. Ma sono certo che il calcio ritornerà quello di sempre, basta che la gente rispetti gli altri e si vaccini. Naturalmente il mio è un discorso legato allo sport, secondario se si guarda alla pandemia e ai danni che sta facendo, ai troppi che di Covid sono morti. Quanto al calcio giocato, è cambiato tanto dai tempi miei, è più veloce, più fisico. Ci sono più contrasti e questo spiega anche il numero di infortuni. Mi sembra manchi la passione di una volta, non c'è più nemmeno l'attaccamento alla maglia».


Parliamo di Nazionale, come vede questa Italia?
«Adesso è un po' dura, ma credo che ce la farà a patto che la squadra resti unita. Noi italiani ci esaltiamo nelle difficoltà, anche se il Portogallo di Ronaldo è un brutto cliente. Mancini deve risolvere in fretta il problema dell'assenza di una punta fissa di ruolo, uno che proprio stia davanti, un perno centrale che sfrutti al meglio il gioco creato. Immobile è bravo ma non è il vero centravanti che gioca davanti alla porta. Si parla di Joao Pedro ma è più un centrocampista avanzato. C'è uno con le caratteristiche per giocare là, forse l'unica punta-punta. È Balotelli. Credo ci si possa ancora scommettere».

Ultimo aggiornamento: 17:01 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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