Luca Campigotto, elegia del mito americano, grandi foto in mostra alla galleria Bugno

Domenica 16 Maggio 2021 di Chiara Pavan
Il fotografo Luca Campigotto

VENEZIA - La sua Elegia americana è un omaggio a miti senza tempo made in Usa: il West dei primi pionieri, le vertigini del Grand Canyon, la Monument Valley di Ombre rosse, la desolazione delle ghost town di California o Wyoming, il silenzio hopperiano delle periferie del Montana. Luca Campigotto ama viaggiare con le emozioni, e la nuova personale alla Galleria Bugno di Venezia, fino al 3 luglio, è un vero e proprio percorso nella memoria on the road costruito in anni di lavoro, e che rimanda all'immaginario letterario e cinematografico tanto caro al fotografo veneziano. In mostra 17 scatti di grandi dimensioni selezionati tra i 70 che animano il suo nuovo libro, American Elegy (Silvana Editoriale con testi critici di Walter Guadagnini, Mauro Pala e Roberto Puggioni), mondi ricchi di suggestioni che invitano gli spettatori «a giocare con la propria fantasia».

Perchè Campigotto, raffinato creatore di imponenti scenari naturali e coinvolgenti scenografie urbane (da Molino Stucky a Venetia Obscura passando per L'Arsenale di Venezia fino a Gotham City e My Wild places) ama portarsi nel cuore «pezzi di mondo da vedere e rivedere. Per rit crovare il ricordo e la sua emozione. Alla fine fotografo quello che mi tocca, mi coinvolge, e che per me ha un'importanza struggente».


Dove nasce questa fascinazione per gli Usa?
«L'ho sempre avuta. Inconsciamente ho lavorato sui miti americani, dal West alla Monument Valley, sin a quando vedevo i film western con mio papà o mi incantavo davanti a Humphrey Bogart nei panni di Chandler. In American Elegy ho fotografato i grandi paesaggi selvaggi, le periferie tristi, con i negozi di liquori o di benzina. Sono anche tornato nel paesino con cui si apre il libro, Butte nel Montana, città mineraria un tempo importante e ora abbandonata. Ci sono edifici magnifici, con vecchie casette in mattoni rossi che ricordano Hopper. Insomma, la provincia americana».


Ma a differenza di Hopper nelle sue foto non ci sono persone.
«È vero. Perché io amo i luoghi. Se in uno di quei luoghi dovessi collocare una persona, la foto finirebbe per appartenerle. A me invece piace il posto, è quello che mi parla. E in quel luogo, poi, chiunque può vederci quello che preferisce. Anni fa qualcuno ha detto che le mie foto sono evocative. Ecco, amo evocare qualcosa, suscitare un'emozione. Perché chi guarda dovrebbe immaginarsi una storia, mettere in moto la propria fantasia, avvicinarsi a quel luogo per farlo diventare la propria scenografia».


Come sceglie questi luoghi?
«Quando arrivo in un posto che mi piace, piazzo il cavalletto e questo fa scattare in me qualcosa di recondito, di nascosto. Dicono che i fotografi riprendano ciò che hanno dentro. È un modo di riconoscere il mondo. Io lo faccio coi luoghi».


Nel suo libro e nella mostra si entra e si esce dal paesaggio naturale.
«Ci sono tanti viaggi, anche uno fatto da solo, a 19 anni, tra le riserve indiane, il Grand Canyon, la Monument Valley, il Colorado River. Luoghi che ormai fanno parte del nostro immaginario».


Ma proprio perché lo sono, non è facile avvicinarsi con occhio nuovo.
«Mi piace rendere omaggio e fotografare ciò che mi emoziona. Non mi interessa cosa pensano gli altri: queste foto le faccio per me, per portami a casa un pezzo di mondo che poi riguardo, anche molti anni dopo».


Cioè?
«Montale diceva che quando scrivi devi chiudere i fogli nel cassetto per almeno tre anni. E quando li tiri fuori, se hanno ancora un senso, bene. Sennò si butta. Io ho gestazioni lunghe, se non c'è un progetto urgente mi prendo il mio tempo. Faccio e poi lascio lì, aspetto, vado a rivedere, ritrovo il ricordo. Devo estrarre i ricordi dalla geografia, la mia impressione di quella volta. È un altro viaggio. Un lusso, ma anche una condanna. Si è costretti, ogni giorno, ad andare su e giù con testa ed emozioni. Impegnativo».


Come ama lavorare?
«Lentamente. Ho una macchina grande, il cavalletto, mi muovo piano, non vado a sparare foto, non sono un reporter che ogni giorno tira fuori un scatto. Quando individuo il progetto, me lo costruisco un po' alla volta».


Elegia americana: un omaggio a Philip Roth?
«In realtà mi era venuto in mente molti anni fa, durante un viaggio nel West. Poi l'ho dimenticato. Ma alla fine è emerso da solo, sapevo cosa volevo fare: rendere omaggio in maniera poetica, lirica e sentimentale ai miei miti».

 

Ultimo aggiornamento: 09:48 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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