Liev Schreiber, «la mia Venezia tra Hemingway e... il tiramisù» Foto

Martedì 23 Febbraio 2021 di Chiara Pavan
Liev Schreiber, «la mia Venezia tra Hemingway e... il tiramisù»

I soldati si materializzano all'improvviso bucando la notte nebbiosa che avvolge l'argine del Piave, a poche centinaia di metri dall'antico ponte di barche di Fossalta. Gli alberi sembrano custodire le memorie di corpi e battaglie che opprimono il cuore malato del colonnello Catwell di Liev Schreiber: i ricordi di guerra, il ruolo di soldato, la vita, l'età che avanza, l'amore, la vita, la bellezza.

L'attore americano si sfiora naso e sopracciglia feriti dal trucco di scena, avviandosi verso un vecchio Maggiolino anni 40 in sosta tra pioppi e betulle: la serata umida in riva al fiume è illuminata da riflettori giganti che stagliano nel buio le silhouette di comparse, tecnici e macchinisti da quasi cinque mesi al lavoro per trasformare in film il romanzo di Hemingway Di là dal fiume e tra gli alberi che la spagnola Paula Ortiz sta finendo di girare in questi giorni a Villa Kechler De Asarta, a Fraforeano di Ronchis.

Riprese soprattutto a Venezia e in laguna, ma anche in centro a Treviso pochi giorni fa, e poi a Fossalta, per una grossa produzione inglese-americana da circa 20 milioni di euro (supportata dalla Veneto Film Commission con 1 milione e 300mila euro, prodotta dalla Tribune Pictures di Robert MacLean, con a fianco Ken Gordon e Michael Palletta come produttori esecutivi, il veneziano Andrea Biscaro come line producer e la romana Augustus Color) che conta su un bel cast di star, dalla lanciatissima Matilda De Angelis attesa ora a Sanremo a Josh Hutchenson (il Peeta di Hunger Games), Laura Morante e Sabrina Impacciatore.

Ma soprattutto il protagonista Liev Schreiber, classe 1967, un miscuglio di origini nel suo dna (sangue austriaco, irlandese, svizzero e scozzese per parte di padre, madre ebrea di discendenza polacca, ucraina e tedesca) e una bella carriera alle spalle fatta di ruoli intensi, dal villain Sabretooth di Wolverine al doppiogiochista di Salt passando per il coraggioso direttore di giornale de Il caso Spotlight fino al duro Ray Donovan televisivo che l'ha impegnato per sette stagioni. Cinque mesi intensi di lavoro che Schreiber ricorderà a lungo, «anche per l'unicità della situazione che ho vissuto a Venezia». Un guizzo divertito negli occhi chiari, Schreiber si rilassa a fine riprese nel suo camper in riva al Piave, «mai avrei immaginato di poter vedere e vivere la città in un momento così particolare». 


Cinque mesi senza... gente.
«Un tempo straordinario, sia pure difficile per tutti. Mi rendo conto che una cosa del genere capita una volta sola nella vita. Appena sono arrivato, tra jet lag e stanchezza, non me ne ero reso subito conto. Ma poi... Incredibile».


Prenderebbe casa in laguna?
«Potrei farlo, sì: amo la qualità della vita in Italia. Anzi, è la qualità della vita a definire il carattere italiano. Bello, mi piace molto questa dimensione».


Difficile dar vita all'alter ego di Hemingway? Una grande responsabilità.
«Ogni personaggio è una grande responsabilità. Tanto più Hemingway. Mi è stato di grande aiuto il libro di Andrea di Robilant, Autunno a Venezia, mi ha illuminato perché offre una prospettiva interessante su quel periodo della vita di Hemingway in laguna: si comprende perchè amava tanto Venezia, si entra nella relazione con Adriana Ivancich su cui poi si basa il romanzo, si osserva la sua vita da vicino in quegli anni. Spunti importanti per capire cosa significa essere un soldato e un uomo di mezza età, riflettere sulla mortalità, sull'amicizia e sulla bellezza». 


Temi importanti.
«Sì, anche per me. Durante il corso del film mio padre si è ammalato gravemente, cancro al quarto stadio, ho dovuto interrompere molte volte. Poi mi sono sottoposto a un piccolo intervento al ginocchio, insomma, ci siamo bloccati molte volte. Tornare a casa a vedere mio padre mi ha dato una prospettiva sia sul personaggio che stavo interpretando che sul film, ma soprattutto sulle domande che ci poniamo in età più adulta: qual è la direzione della nostra vita, quale è il suo significato, se mai ne ha avuto anche per noi. Insomma, riflessioni arrivate in un momento particolare per me, che mi hanno fatto sentire il film più da vicino».


Invece il suo Ray Donovan pare non finisca dopo la settima stagione, vero? 
«Sì, novità in arrivo: ma verranno annunciate ufficialmente dopo il 24 febbraio».


Perché questo personaggio è così amato?
«Ray Donovan, per me, inizia con la famiglia, che è il centro del suo mondo. Tutti noi proviamo sentimenti contrastanti, al suo interno ci sono elementi intollerabili in un modo o nell'altro: ma per loro faremmo comunque qualsiasi cosa, anche morire. Ray lo esprime benissimo, darebbe la vita per la sua famiglia. E poi c'è un altro elemento interessante: la rabbia. Che Ray sa esprimere e incanalare, cosa che la maggior parte di noi non sa fare. Come ad esempio togliersi giacca e camicia ed entrare in un bar con la mazza da baseball. Penso sia liberatorio per moltissime persone».


Lei ha diretto numerosi episodi della serie tv dopo il bel debutto con Ogni cosa è illuminata, presentata proprio alla Mostra del cinema di Venezia: tornerà presto dietro la macchina da presa?
«Quando hai bambini piccoli è difficile farlo, un film ti sottrae alla famiglia per quasi due anni, e in questo momento sono egoista, non voglio stare lontano da loro. Ma credo che tra un po' saranno loro a cacciarmi di casa e potrò pensarci».


Ma lei cosa guarda in tv?
«Troppi notiziari, è davvero deprimente (risata). Ma mi piacciono molto gli show sul cibo, mi divertono moltissimo. Non per imparare a cucinare, ma per vedere come viene creato il cibo, lo trovo rilassante e divertente».


Il suo piatto preferito? 
«Faccio un buon tiramisù, lo giuro. Adoro le melanzane alla parmigiana, e le vongole, soprattutto quelle piccole e dolci che ho provato a Venezia. Buonissime». 


E il suo italiano come procede?
(risata) «Procede... (in italiano), ma è difficile!».

Ultimo aggiornamento: 11:28 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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