«La mia vita oltre Auschwitz: dopo l'inferno, così ho trovato la forza di raccontare il dolore»

Lunedì 24 Gennaio 2022 di Angela Pederiva
Virginia Gattegno

VENEZIA - Quante vite in una sola. Arrivata alla soglia delle 99 primavere, Virginia Gattegno ha deciso di raccontare tutte le donne che è stata: bambina spensierata fra Roma e Anzio, ragazza felice a Rodi, giovane deportata ad Auschwitz, moglie innamorata in Congo, maestra serena al Lido. Una terribile parentesi di orrore, quei lunghi mesi nel campo di sterminio, in un'esistenza ricca di amore: un'esperienza lacerante che non è però riuscita a scalfire la fiducia nel futuro dell'ultima sopravvissuta al lager polacco tuttora vivente a Venezia.
A24324Non a caso è La mia vita oltre Auschwitz il sottotitolo del libro Per chi splende questo lume, scritto con Matteo Corradini e appena pubblicato da Rizzoli. Caricata prima su una nave e poi su un treno nell'estate del 1944, quando compiva 21 anni, Virginia venne costretta dai nazisti a lasciare la Grecia (dove il papà Shalom era stato mandato a dirigere la scuola ebraica) insieme alla nonna Sara, alla mamma Marcella, ai fratelli Alberto e Michele e alla sorella Lea, l'unica poi tornata indietro insieme a lei. Tremendo l'arrivo a destinazione: «Eravamo più morti che vivi, il viaggio era stato spettrale ma non immaginavamo fosse solo l'inizio e che si potesse scendere di molti scalini verso l'inferno».
Le privazioni, le violenze, le umiliazioni, i decessi. «Ogni giorno cominciava con l'appello. Ci riunivano in uno spazio tra le baracche e un nazista cominciava a leggere i nostri numeri in tedesco. Quelle che non sapevano il tedesco e non rispondevano al momento giusto venivano bastonate. Così ti toccava imparare in fretta, e imparavi anche che il tuo nome non esisteva più. Eravamo un codice tatuato». Il suo era A24324, cifre anonime in una quotidianità bestiale. «Ad Auschwitz arrivi a mangiare di tutto, non ti fai più nessun problema, non ti fa schifo più niente. Mangi pane ammuffito, erba, radici. Alcune ragazze le ho viste rosicchiare le maniche di una giacca dalla disperazione. Quando hai fame per settimane, non ragioni neanche più».
Virginia trovò la forza di resistere. «Avevo tenuto duro pensando che mai avrei consegnato questo mio corpo ai nazisti.

Non volevo morire lì. Ovunque poteva succedere, perché purtroppo prima o poi succede, ma non lì, in quella neve, in quella disperazione. Volevo salutare questa vita come un essere umano, come una donna libera e non come una prigioniera». Finché il 27 gennaio 1945 apparve l'Armata Rossa. «Il portone della baracca si è spalancato e abbiamo visto un soldato alto e barbuto, ricoperto di neve da capo a piedi. Mi sembrava un angelo, così bianco». Di quel ricordo resta una riproduzione, nel celebre filmato della liberazione, girato in realtà alcune settimane più tardi, quando fu disponibile una cinepresa. «Era tutto fasullo, i russi ci davano da mangiare e in cambio noi gli davamo un po' di celebrità».


PUDORE

Per più di 40 anni, mentre costruiva una famiglia con l'amato ex soldato Ugo, conosciuto a Rodi e ritrovato dopo Auschwitz, la donna non raccontò a nessuno di quell'abominio. «Fu per una specie di pudore, penso. Mi domandavo chi fossi in fondo per avere il diritto di parlare di deportazione, di sterminio e di soldati nazisti. Ero solo una su milioni di persone che erano passate per quei medesimi luoghi, in quegli anni che distrussero il mondo. Ero un puntino nella storia». Ma poi arrivò un giorno del 1986, quando la pensione era imminente. «Camminavo sulla spiaggia del Lido e riflettevo. Ripensavo. Guardavo le impronte che avevo lasciato: sì, io ero stata ad Auschwitz. Tra il mare e la sabbia, presi la mia decisione». Agli alunni della sua ultima classe, la maestra Virginia confidò tutto. «Non ricordo come, ma ho raccontato chi ero, e come avevo passato una parte della mia giovinezza nella paura di essere me stessa, di essere ebrea, e che qualcuno ci facesse del male. E poi, per ultimo, ho raccontato il dolore per aver perduto quasi tutti quelli che amavo».
Ora l'autobiografia, in cui la quasi centenaria svela anche di aver sognato il lager quando era incinta di Raffaella, a cui sarebbe poi seguita Donatella. «Stavo mettendo al mondo un figlio nello stesso mondo ove c'era stato Auschwitz. Io, ebrea, stavo dando alla luce una persona in un luogo che aveva sperimentato quel buio insopportabile e definitivo». La vita ha vinto. «Ho sognato Auschwitz una volta sola, una soltanto. Non è più tornato a visitarmi di notte, ma ogni giorno è sempre qui, a farmi compagnia».

Ultimo aggiornamento: 17:15 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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