Tullio Pozzan, lo scienziato dei "segnali" che parla alle cellule

Lunedì 11 Novembre 2019 di Edoardo Pittalis
Tullio Pozzan, lo scienziato dei "segnali" che parla alle cellule
Le cellule parlano, hanno un loro linguaggio e al mondo soltanto pochissime persone sono in grado di capirlo e interpretarlo alla ricerca della cura più giusta. Tullio Pozzan è una di queste. Lui le cellule le interroga, le capisce, le ha studiate tutta la vita collaborando a ricerche che hanno portato al Nobel. Al Bo gli hanno appena dedicato un convegno internazionale: Lo scienziato dei segnali cellulari; tra i suoi allievi l'attuale rettore dell'ateneo padovano, Rosario Rizzuto.
Nato a Mestre, 70 anni, Pozzan è considerato tra i più importanti microbiologi, siede nella National Accademy americana, e nella Royal Society di Londra nella quale l'altro italiano è Carlo Rubbia. Appena lasciata la cattedra di Patologia generale, gli hanno affidato l'incarico di direttore del Dipartimento scienze biomediche del Cnr al quale lavorano tremila persone in tutta Italia.
È vero che un Pozzan non poteva che fare il medico?
«Mio padre Mario è stato il primo primario pediatra ospedaliero del vecchio ospedale di Mestre. Mio fratello più giovane, Giovanni Battista, è da poco andato in pensione come primario pediatra: c'è stato un passaggio di testimone. Ho il nome di mio nonno che era primario chirurgo di Mestre all'inizio del Novecento, anche i miei zii erano medici. Molti in famiglia hanno sposato medici, anch'io ne ho sposato uno. Però io ho tradito perché ho fatto il medico finto, ho sempre fatto il ricercatore».
Come era la Mestre della sua infanzia?
«Sono cresciuto in una Mestre che era una cittadina deliziosa e piena di giardini e di ville che sono state rase al suolo. Quando ero alle medie, il Villaggio San Paolo non esisteva, c'era la casa del contadino e andavo a giocare nei prati dietro. C'erano le vacche, avevo una grande paura delle oche mute che sono più grandi, aggressive. Ho avuto un'infanzia felicissima, si giocava per strada senza problemi, ero il più grande di cinque fratelli e mamma Lucia mi affidava la responsabilità. Facevamo anche sport, io sciavo con buoni risultati, sono stato qualche anno campione provinciale nello slalom gigante. Ho continuato a sciare: ho vinto qualche campionato universitario e per molti anni il titolo italiano dei docenti universitari sopra una certa età. Tornavamo dalle vacanze, trascorse soprattutto in montagna, il 30 settembre ed eravamo arrabbiatissimi col papà che ci faceva perdere il mese di settembre con gli amici a Mestre. In realtà era perché in quegli anni mio padre, come pediatra, vedeva tutti i casi di poliomielite che c'erano d'estate nella zona. Praticamente ci sequestrava in montagna. Mio padre, quando è arrivato il vaccino lo faceva venire dalla Svizzera e ci vaccinava tutti».
Cosa pensa dei no vax?
«Tutto il male possibile, è una follia. Non ci rendiamo conto del fatto che le vaccinazioni hanno salvato più vite degli antibiotici. Nelle famiglie numerose dell'inizio del secolo la metà dei figli moriva di difterite, di polio, di tubercolosi. Adesso si muore troppo di morbillo, anche di influenza. Purtroppo per la malaria non abbiamo un vaccino e la malaria è la prima causa di morte del mondo».
Quando è entrato nell'Università?
«Dopo il liceo Franchetti di Mestre, sono andato a Padova a fare Medicina e nel secondo anno sono entrato come studente interno nell'Istituto di Patologia generale e dopo la laurea col professor Giovanni Felice Azzone ci sono rimasto. Mi piaceva quello che facevo e che poi è stato tutta la mia vita: il ricercatore universitario. Ho avuto una gran fortuna: sono diventato assistente di ruolo con due mesi di laurea! Era il 1973, avevo fatto un concorso nel quale ero risultato idoneo, poi a fine anno uscirono i provvedimenti urgenti per le università: un piccolo capoverso diceva che tutti gli idonei nei concorsi prima della legge passavano di ruolo in sovrannumero. La fortuna conta nella vita. Così come ha contato quando sono andato a lavorare in Inghilterra».
Era un cervello in fuga?
«Ma no, un cervello fortunato. Sono rimasto a Cambridge fino al 1981 e la fortuna della mia vita è stata quella di incontrare Roger Tsien che era ancora un ragazzino: lui nel 2008 ha vinto il Premio Nobel per la Chimica. Un uomo assolutamente geniale: era americano e veniva da una famiglia cinese, il padre ingegnere aeronautico si era trasferito negli Usa nella seconda guerra. La mia collaborazione con Roger è stata amicizia vera per quarant'anni, fino alla sua morte nel 2016, a soli 63 anni. Aveva una velocità di pensiero che non ho mai trovato in nessun'altra persona, non riuscivo a stare alla sua velocità. Era anche un bravo pianista. Il lavoro fatto insieme ebbe un successo strepitoso, mondiale: uno degli ioni più abbondanti nel nostro corpo è lo ione calcio, il principale costituente delle ossa».
Allora è tutta una questione di calcio?
«Il calcio ha una funzione unica: all'interno delle cellule la sua concentrazione è molto bassa, quando una cellula viene stimolata in qualche modo quasi sempre provoca un aumento di calcio. Un esempio: il nostro cuore batte una volta al secondo, ogni contrazione delle cellule cardiache è dovuta al fatto che il calcio prima sale - e le cellule si contraggono - poi scende - e le cellule si rilasciano. Sessanta volte al minuto nel cuore tutte le cellule cardiache hanno un picco di calcio. Il calcio è molto più importante di quello che si crede: è un controllore delle funzioni cellulari più sofisticate. Manipolarle è alla base di molta farmacologia. La ricerca ha scoperto che bisognava avere un modo per misurare queste variazioni nelle cellule vive: non c'era un modo per farlo e con un altro collega che da poco è venuto al Bo, Timothy Rink, abbiamo inventato un metodo semplice e efficace applicato da allora in tutto il mondo. Si basa su una sostanza fluorescente che cambia intensità di colore».
Cosa è stato il ritorno a Padova?
«Sono rientrato nel 1981, ho creato il mio gruppo di studio a Padova e poi a un certo punto è venuto a lavorare con me un giovane che rientrava dall'America, Rosario Rizzuto, che oggi è il rettore. Lui negli Usa aveva studiato soprattutto le nuove tecnologie di Biologia molecolare e così abbiamo cominciato ad applicarle agli studi, facendo un salto avanti. Il problema affrontato con Rizzuto era quello di poter studiare ciò che succede nel citoplasma della cellula, la parte liquida. Ma la cellula è più complessa, ha un sacco di strutture che sono autonome a partire dal nucleo. Abbiamo sviluppato metodi che permettevano di andare a misurare il parametro calcio dentro le strutture interne alla cellula, scoprendo che il processo della morte cellulare è dovuto al fatto che si ha un eccesso di accumulo di calcio dentro a uno di questi organismi. Il tutto è stato pubblicato nel 1992».
È per questo che viene chiamato lo scienziato dei segnali cellulari?
«Della cellula sappiamo molte più cose di una volta, ma ha ancora molti misteri e soprattutto i misteri sono nel funzionamento del cervello. Guarda caso proprio quell'organo nel quale le variazioni dello ione di calcio sono più importanti. Le funzioni cerebrali sono al 70% controllate dalle variazioni di calcio. Continuiamo le ricerche e in questi studi a Padova siamo i più forti in Italia. In una società ognuno ha un mestiere diverso, la società funziona perché ci scambiamo dei messaggi, anche a distanza. Un organismo umano è in pratica una società di cellule con lo stesso patrimonio genetico, ma ogni cellula fa qualcosa di diverso. Per funzionare le diverse cellule devono scambiarsi messaggi e coordinarli. Tutto funziona perché questi messaggi sono tradotti. Se non funzionano bene allora abbiamo la malattia. Il tumore è una malattia dei segnali. Come funzionano questi messaggi? Otto su dieci, via calcio».
Edoardo Pittalis
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Ultimo aggiornamento: 17:46 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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