«I kosovari di Rialto erano una vera cellula dell'Isis», ecco la sentenza

Martedì 21 Agosto 2018 di Davide Tamiello
«I kosovari di Rialto erano una vera cellula dell'Isis», ecco la sentenza
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VENEZIA - Non erano ancora pronti. L’attentato a Rialto, almeno per il momento, non era nei loro programmi. Secondo il gup di Venezia Massimo Vicinanza, però, questo non significa che il gruppo criminale non fosse pericoloso, anzi: il loro modo di muoversi e di organizzarsi, dai finanziamenti all’estero per la jihad all’addestramento continuo, era esattamente quello di una cellula dell’Isis. È quanto si legge nelle motivazioni della sentenza che ha condannato i giovani kosovari accusati di aver costituito un gruppo fondamentalista finalizzato a realizzare un attentato nel cuore di Venezia.
 
Tredici anni (complessivi) di reclusione per associazione con finalità di terrorismo: cinque anni ad Arjan Babaj, ritenuto l’ideologo del gruppo, e 4 anni di carcere ciascuno al ventisettenne Dake Haziraj e al venticinquenne Fisnik Bekaj. Più morbida la condanna nei confronti del più piccolo del gruppo, un 17enne, ridotta in secondo grado da 4 anni e 8 mesi a 3 anni e 4 mesi. 
«ALLARME AMPLIFICATO»
Il giudice da una parte dà ragione alla teoria delle difese: spiega, cioè, che «non era stato programmato alcun attentato e che l’allarme sulla cellula veneziana in grado di colpire Rialto era ingiustificato». Babaj, Bekaj e Haziraj, in effetti non sono indagati per strage. L’intercettazione chiave, in questo senso, era stata quella attribuita a Bekaj. Il giovane kosovaro, infatti, era arrivato a dire che lui e i suoi connazionali «avrebbero dovuto mettere una bomba. Troppo poco per definirla una dichiarazione d’intenti, ma che va inserita in un contesto di azioni e di atteggiamenti, da parte del gruppo, sempre più inclini alla violenza o allo studio di essa. Come aggiunge subito dopo il gup, «la condotta dei tre imputati che hanno scelto un appartamento a Venezia come base per attuare condotte di concreta offensività, perché lì hanno finanziato, acquisito, diffuso, preparato la loro dedizione al jihad violento, pronti, anche fisicamente, per uno scopo che è proprio quello del terrorismo internazionale di matrice religiosa». 
FINANZIAMENTO ECONOMICO
Ovvero: non c’era nulla di casuale, i movimenti erano quelli di una cellula dell’Isis. Tanto che era noto che il gruppo raccoglieva denaro da destinare alla causa. Babaj e Bekaj avevano il compito di gestire le spedizioni monetarie per il Daesh. «Il jihad non vuole solo uomini sul terreno, vuole uomini che aiutino finanziariamente», sosteneva Babaj nelle sue conversazioni. 
«La jihad nella via di Allah è la migliore azione dopo la preghiera». Questa frase si trova nella “chat 26”, alla quale partecipano anche Bekaj e Babaj. In questa chat, come in tante altre, i partecipanti, tutti musulmani, hanno un unico argomento: la questione religiosa e l’uso della violenza per affermarla. Nelle indagini, il gup cita le varie conversazioni attraverso social network come Snapchat o chiamate “voip” come Viber e Whatsapp. Tra le chat giravano, oltre alle foto degli allenamenti, anche quelle dei tre con il dito indice della mano destra alzato. «Un gesto tenuto anche dal califfo Al Baghdadi, segno distintivo del Daesh». 
«SENTENZA VUOTA»
Una sentenza che non è piaciuta alle difese. «Una sentenza vuota di contenuti, che basa tutto su poche centinaia di euro di quelli che non sono aiuti all’Isis, ma elemosine secondo i precetti dell’Islam», commenta l’avvocato Vincenzo Platì, legale di Babaj, che annuncia ricorso in appello, «una sentenza che ricollega l’appartenenza all’Isis a video come ce ne sono migliaia in rete o ad allenamenti in palestra, è assurdo».
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Ultimo aggiornamento: 09:53 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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