Toffoletto, primario di terapia intensiva
"In prima linea, ma con armi in più"

Mercoledì 18 Novembre 2020 di Fabrizio Cibin
Il primario di Jesolo Fabio Toffoletto

Nella riorganizzazione dell’ospedale di Jesolo, divenuto Covid-Hospital, il dottor Fabio Toffoletto, primario di anestesia e rianimazione, ha preso in carico i pazienti di terapia intensiva. Il collega Lucio Brollo, primario di medicina, segue, invece, la gestione dei due reparti malattie infettive.
Dottor Toffoletto, com’è la situazione ad oggi?
«Impegnativa, ma ancora sotto controllo, grazie alla organizzazione fatta nei mesi precedenti e sulla scorta dell’esperienza fatta a marzo, che ci ha permesso di affrontare anche questa emergenza, cui eravamo preparati».
Lei parla ancora di emergenza: è questo che stiamo affrontando?
«Parlo di emergenza perché i numeri sono impegnativi. Perché una pandemia, quindi una epidemia di una malattia infettiva, non è una routine. Siamo in una situazione in cui l’Europa stessa l’ultima volta che si è trovata di fronte ad una pandemia, è stata 60 anni fa, alla fine degli anni 50, con la diffusione di una malattia di cui ci siamo ormai dimenticati, che è la poliomelite. Una situazione che non rientra nei normali aspetti terapeutici di notevole entità e anche nei pazienti in cui si manifesta in maniera grave, le conseguenze sono altrettanto gravi».
L’età media dei suoi pazienti è la stessa della prima ondata?
«È un’età leggermente inferiore rispetto a marzo, perché probabilmente gli effetti della politica di prevenzione sta proteggendo la popolazione più anziana, mentre chi è più esposto per motivi di natura sociale e lavorativa risulta più colpito».
Ci faccia degli esempi.
«In questo momento ho tredici ricoverati in terapia intensiva: il più giovane ha circa 50 anni e tra l’altro è un collega, che ha anche lavorato al Pronto soccorso da noi. Il resto dei pazienti è tra i 60 ed i 70 anni».
Le loro condizioni?
«Sono abbastanza impegnative, quindi gravi. E’ un decorso molto impegnativo che richiede giorni di trattamenti e di intubazione».
L’atteggiamento dei pazienti è cambiato, ora che si sa di più della malattia?
«E’ il medesimo. Il paziente che entra è malato ed ha la cosiddetta fame d’aria. Fa fatica a respirare perché gli manca l’aria; è particolarmente pesante da sopportare. Ha la sensazione non dico di soffocare, ma ha proprio fame d’aria, perché non gli basta. Quindi direi che non è cambiato nulla».
E invece per la sanità?
«Sono cambiate due cose. La prima è l’organizzazione a livello regionale, molto più strutturata (anche rispetto ad altre), raggiungendo l’optimus. La seconda: conosciamo meglio la malattia, anche se si tratta di una malattia molto subdola, con aspetti che devono ancora essere chiariti; ma rispetto a qualche mese fa, molti passi in avanti sono stati fatti. Poi è chiaro che il virus ha dei tempi che non sono necessariamente i nostri».
E per lei?
«Dire che è cambiato qualcosa è difficile. Io mi trovo di fronte ad una situazione di cui conosco di più, per cui ho già davanti delle, non dico certezze, ma delle strade che ho già percorso. E’ comunque difficile combatterlo; quando si manifesta lo fa in maniera molto pesante».
Cosa la preoccupa maggiormente?
«Di potermi ammalare anch’io, cosa comune a tutti. Quindi spero se ne possa venire fuori il più velocemente possibile, perché sono preoccupato per i giovani, che potrebbero avere una ricaduta su un contesto sociale ed economico».
Qualche giorno fa, a margine di una conferenza stampa, disse che le undici persone decedute di recente erano persone anziane con altre patologie, quindi erano mancate “con” il Covid-19 e non “per”. Qual è il tasso di mortalità causato da questo virus?
«In quello specifico caso effettivamente si trattava di persone che potevano mancare anche per una polmonite. In generale posso dire che il tasso di mortalità in terapia intensiva per il Covid-19 è intorno al 23%».
Quando ne saremo fuori secondo lei?
«E’ ragionevole pensare che, fino a quando non ci sarà un vaccino che potrà liberarci, non ne saremo fuori. Ci vorrà probabilmente un po’ di tempo».
Siete ancora gli eroi, come vi chiamavano fino a pochi mesi fa?
«Mai passato per la testa che lo fossimo neppure prima. Facciamo solo il nostro lavoro e il nostro dovere che, seppur pesante in alcune occasioni, è per il bene del paziente. Rischiamo la vita? Certo, ma come la rischia anche l’operaio nell’alto forno».

Ultimo aggiornamento: 08:38 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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