«Finalmente riapriamo dopo più di sei mesi, solo durante la guerra, quando siamo stati occupati dai repubblichini, siamo stati chiusi di più. Servizio solo al piano terra, come per i primi nostri anni d’attività dal 1931 al 1960, ma con solo la metà dei coperti. Il piano sopra sarà per gli eventi speciali. Ci starà meno gente: vuol dire che li faremo pagare di più». Arrigo Cipriani, 88 anni, è il solito ciclone: il suo Harry’s Bar riapre oggi dopo lo stop da Covid iniziato ai primi di marzo ed è impegnatissimo ad oliare al meglio lo storico scrigno del gusto a due passi da piazza San Marco. Un segno di rinascita per tutta la città e per un mondo della ristorazione che vuole ripartire dalla qualità e dai prodotti locali dopo i durissimi mesi della chiusura. Ma lui non ama fanfare e fanfaronate: «Riapro con lo spirito di sempre: attenzione al cliente nel segno della mia tradizione. Il nostro in primo luogo è un servizio».
Un servizio unico e apprezzato.
«L’Harry’s Dolci è aperto da due mesi e mezzo e sta andando benissimo, è sempre pieno. L’Harry’s Bar oggi è già tutto prenotato, e anche per i prossimi giorni non avremo problemi a lavorare».
Cipriani non teme le regole da Covid?
«Non aspettavo di certo queste regole per tenere a posto il mio locale. Io odio l’odore di cucina, abbiamo un impianto di condizionamento da 40 hp, ricambiamo l’aria 18 volte all’ora e terremo spalancate anche le finestre: sarà come stare all’aria aperta».
E d’inverno?
«La gente si terrà il cappotto».
Al di là delle battute, è dura riaprire con tutte queste limitazioni?
«In entrata ho rimesso le porte da saloon e ci saranno solo una trentina di coperti per garantire il distanziamento di un metro. E poi tutte le altre storie come mascherine e detergenti per le mani. Restano i 15 cuochi ma dovrò rinunciare a una parte del personale e chiuderemo due volte alla settimana il mercoledì e il giovedì invece dell’unico riposo solito. Vuol dire che darò più respiro alle persone».
Non è del tutto contento.
«Non mi piace questo clima. Io sono un negazionista, ma del terrore: questa storia del Covid è come l’effetto serra, ci stanno facendo il lavaggio del cervello. C’è chi è arrivato a prendere a calci in vaporetto chi non aveva la mascherina, come se tutte queste morti fossero solo colpa del virus. E i vecchi a cui hanno spaccato i polmoni per intubarli? Negli Stati Uniti New York è diventata un deserto, non si può riaprire fino a quando lo deciderà il sindaco comunista. Per fortuna nel resto del mondo andiamo bene».
È stata dura in questi mesi di chiusura?
«Tolto la guerra, in novant’anni abbiamo chiuso solo per i lavori di ristrutturazione. E una volta a Carnevale, nel 1990, per protesta contro una festa che non era già più dei veneziani».
Quei veneziani che come lei, dopo l’invasione dei turisti giornalieri, l’alluvione di novembre e l’epidemia del Covid, non si sono ancora arresi. Come vede questa ripartenza?
«Vedo timidi segni di ripresa, anche con qualche turista straniero, ma senza grandi differenze rispetto al passato: ci sono solo soprattutto i visitatori giornalieri, non quelli che si fermano quattro o cinque giorni negli alberghi, ancora per lo più vuoti. Io riapro per loro, per dare un servizio ai turisti veri. E poi spero nella rinascita della città, in nuovi cittadini. Ci vorranno dieci anni almeno per vedere un vero cambiamento. Se arriverà».
© RIPRODUZIONE RISERVATA «L’Harry’s Dolci è aperto da due mesi e mezzo e sta andando benissimo, è sempre pieno. L’Harry’s Bar oggi è già tutto prenotato, e anche per i prossimi giorni non avremo problemi a lavorare».
Cipriani non teme le regole da Covid?
«Non aspettavo di certo queste regole per tenere a posto il mio locale. Io odio l’odore di cucina, abbiamo un impianto di condizionamento da 40 hp, ricambiamo l’aria 18 volte all’ora e terremo spalancate anche le finestre: sarà come stare all’aria aperta».
E d’inverno?
«La gente si terrà il cappotto».
Al di là delle battute, è dura riaprire con tutte queste limitazioni?
«In entrata ho rimesso le porte da saloon e ci saranno solo una trentina di coperti per garantire il distanziamento di un metro. E poi tutte le altre storie come mascherine e detergenti per le mani. Restano i 15 cuochi ma dovrò rinunciare a una parte del personale e chiuderemo due volte alla settimana il mercoledì e il giovedì invece dell’unico riposo solito. Vuol dire che darò più respiro alle persone».
Non è del tutto contento.
«Non mi piace questo clima. Io sono un negazionista, ma del terrore: questa storia del Covid è come l’effetto serra, ci stanno facendo il lavaggio del cervello. C’è chi è arrivato a prendere a calci in vaporetto chi non aveva la mascherina, come se tutte queste morti fossero solo colpa del virus. E i vecchi a cui hanno spaccato i polmoni per intubarli? Negli Stati Uniti New York è diventata un deserto, non si può riaprire fino a quando lo deciderà il sindaco comunista. Per fortuna nel resto del mondo andiamo bene».
È stata dura in questi mesi di chiusura?
«Tolto la guerra, in novant’anni abbiamo chiuso solo per i lavori di ristrutturazione. E una volta a Carnevale, nel 1990, per protesta contro una festa che non era già più dei veneziani».
Quei veneziani che come lei, dopo l’invasione dei turisti giornalieri, l’alluvione di novembre e l’epidemia del Covid, non si sono ancora arresi. Come vede questa ripartenza?
«Vedo timidi segni di ripresa, anche con qualche turista straniero, ma senza grandi differenze rispetto al passato: ci sono solo soprattutto i visitatori giornalieri, non quelli che si fermano quattro o cinque giorni negli alberghi, ancora per lo più vuoti. Io riapro per loro, per dare un servizio ai turisti veri. E poi spero nella rinascita della città, in nuovi cittadini. Ci vorranno dieci anni almeno per vedere un vero cambiamento. Se arriverà».
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