Francesca, azzurra paralimpica a Tokyo: «Lo sport è uno solo, ma pregiudizi e stereotipi ancora lo frenano»

Venerdì 3 Settembre 2021 di Claudio Strati
Francesca Cipelli, dalla sua pagina facebook

VENEZIA - «Siamo tutti solo atleti. E basta». Francesca Cipelli la sa lunga in materia di sport e società. A Tokyo ha colto il nono posto della sua categoria, T37, nel salto in lungo. Penalizzata anche proprio da quelle categorie non ben definite, Francesca, atleta paralimpica di livello internazionale, veneziana che si allena a Scorzè, tesserata per Veneto Special Sport di Noale, recordwoman del lungo in Italia con 4,12 e più colte campionessa italiana, archivia l'esperienza giapponese e già pensa alle paralimpiadi di Parigi.

Un trauma cranico, a causa di un incidente, le ha cambiato la vita ad appena dieci anni, a seguito del quale per una cerebrolesione la zona destra del suo corpo è rimasta bloccata. Dopo un lungo recupero fisico, Francesca ha scoperto lo sport ed è una "stella" internazionale.

Diversità, cioè normalità

Francesca si è laureata in Scienze dell'educazione allo Iusve, Istituto Universitario salesiano di Venezia, facente capo alla Università Pontificia Salesiana. E la sua tesi (relatrice Luciana Rossi) ha proprio centrato il suo mondo, raccontandolo dal di dentro: "Sport paralimpico come valorizzazione della diversità. Analisi del perfetto binomio educativo-sportivo in chiave equo-inclusiva". Si è messa, come scrive, a indagare sulla concezione di «diversità in quanto normalità, sui significati delle terminologie oggi usate con il loro corretto impiego e sull’equità delle possibilità tra atleti normodotati e paralimpici». Un modo per analizzare, dal suo osservatorio privilegiato, come sia fondamentale la consapevolezza che l’attività sportiva può diventare un prezioso alleato dell'atleta.

Da Mandela a Francesca

Lei cita Nelson Mandela: "Lo sport ha il potere di cambiare il mondo". E si dice del tutto d'accordo: «Io ho sempre ritenuto lo sport un’importante scuola di vita e un incredibile bacino di valori per ogni essere umano; soprattutto associato all’universo paralimpico. Solo nel momento in cui, sopraggiunta la mia attuale disabilità fisica, ho avuto l’opportunità di praticare uno sport paralimpico agonistico e di essere competitiva a livello internazionale, ho raggiunto la consapevolezza di quanto non solo esso sia particolarmente indicato per il recupero ed il mantenimento delle abilità psico-socio-fisiche dell’individuo con disabilità, ma sia requisito importante per un’educazione inclusiva rivolta all’intera società». 

 

«Il buio a scuola, mi bullizzavano»

Lo sguardo allo sport paralimpico, però, va cambiato. Incrementato. Infatti solo il 9,1 per cento delle persone con limitazioni si dedica all’attività sportiva (cioè  la gran parte di loro non gode dei benefici fisici e relazionali conseguenti), contro il 36,6% nel resto della popolazione. E bisogna partire dalla scuola, sostiene Cipelli. «Io da 5 anni vado nelle scuole a raccontare la mia esperienza. A sensibilizzare riguardo a tematiche come la disabilità, il bullismo, la diversità, lo sport paralimpico e generalmente sul non arrendersi di fronte ai limiti imposti dalla società. Quindi racconto la mia storia, la trama dell’incidente che mi coinvolse, le sue conseguenze negative, ovvero la disabilità fisica e gli altri deficit da me riportati. Una lunga riabilitazione, i primi traguardi e poi l'ingresso nel mondo reale con la conseguente discriminazione in quanto disabile, e la presa di coscienza in quanto "diversa". La parte più buia della mia vita - prosegue Francesca -, fu l’ingresso alle scuole superiori. In quel periodo venni pesantemente bullizzata, la mia classe si coalizzava contro di me ed io per sfuggirne andavo nell’area riservata ai ragazzi con disabilità intellettive importanti; solo lì mi sentivo accettata per com’ero. Ciò indusse i miei professori a pensare che io non potessi raggiungere il diploma, per fortuna si sbagliavano». In quel momento di tenebre uno spiraglio di luce fu lo sport, la para atletica. Alla prima gara, mi trovai immersa in un ambiente sociale stimolante alla quale non ero per niente abituata; in quel contesto conobbi persone che facevano della propria disabilità il proprio cavallo di battaglia e che vedevano in me le stesse potenzialità». 

La domanda più interessante

Nelle scuole parte succosa sono le domande degli scolari e degli studenti. La più interessante è stata quella di un alunno di quinta elementare: "Cosa saresti stata senza l’incidente e tutte le conseguenze ad esso collegate?".
«Mi colse impreparata, ma risposi secondo la mia filosofia di vita. Con quel che ho vissuto, non riuscirei a vedermi diversamente. La mia vita non la cambierei mai perché è grazie ad essa se oggi sono la persona che sono, che si batte per diritti eguali ed equi per tutto il corpo sociale».

I ritardi del mondo sportivo

Ma se lo sport è un potente fattore inclusivo, nello stesso tempo - e qui è il centro dell'analisi di Francesca - non viene portato a svolgere questo ruolo in modo compiuto. Ovvero ci sono dei ritardi nella società e nei suoi gangli, ma anche nel mondo sportivo stesso, pure quello paralimpico, che frenano i fattori positivi. Il termine "diversità", ad esempio, ha un significato tutt'al più negativo, stereotipato e con una forte componente  discriminatoria. La diversità viene ancora data come contrario di uguaglianza, indicando una caratteristica della persona comunemente considerata sbagliata e quindi da nascondere. Fa fatica a farsi largo, dagli albori del XXI secolo, un’altra versione, per la quale la diversità è intesa come risorsa.

I punti deboli del sistema

Quali sono i nei di questi meccanismo? La neolaureata li indica: il basso livello nella partecipazione all’attività ludico-sportiva delle persone con disabilità è naturalmente dovuto a cause varie, dalle barriere architettoniche alle condizioni socioeconomiche degli individui e, in particolare, ai limiti relativi  alla mentalità della cultura comune dominante, oltre alla generale scarsa conoscenza della popolazione media italiana di questo mondo. C'è una forte disinformazione di questo ambito sportivo sia da parte della persona interessata e della sua famiglia, ma anche e soprattutto dei professionisti del settore terapeutico, elementi che combinati contribuiscono a causare un forte  sedentarismo. A Cipelli non piace la parola inclusione, trova più corretta integrazione. Non sono sinonimi: integrazione rende l'individuo membro di una società; inclusione guarda alla disabilità come un deficit da collocare all’interno dei processi disabilitanti.

Paralimpici, mondo "inferiore"

E, pur a fronte di un'indubbia crescita esponenziale nell’integrazione dei soggetti disabili, e sebbene le realtà societarie e associazionistiche che svolgono attività nel settore siano in numero sempre crescente, manca la completa inclusione nelle realtà dei normodotati, tanto negli allenamenti quanto nelle competizioni. Le scorse due edizioni delle Paralimpiadi, Londra 2012 e Rio 2016, hanno certamente contribuito a lanciare un messaggio inclusivo universale, ma tuttavia la strada per il riconoscimento di eguali diritti tra atleti normodotati e non è ancora lunga, com’è altrettanto lunga quella per il riconoscimento di Olimpiadi e Paralimpiadi come realtà totalmente eque.

«Ma lo sport è uno solo»

«Associati allo sport paralimpico, vi sono solitamente dei buonismi e dei pietismi comuni nel pensare all’attività sportiva per questi individui solo come mezzo per alleviare il loro dolore e le loro sofferenze. La mera realtà è invece che l’entrata nel modo sportivo delle persone con disabilità può accadere solo nel momento in cui avviene il superamento dell’handicap psico-socio-mentale da parte del soggetto. Questo denota il passaggio da una condizione socialmente imposta ad una presa di coscienza che ogni essere umano ha una dignità a sé stante e libera dai pregiudizi. Pertanto se tale soggetto è inserito in uno sport significa che c’è stato un cambiamento della percezione della sua disabilità da limite a risorsa. Lo sport - scandisce Francesca - è uno solo e gli atleti sono tutti uguali poiché si spingono al confine, superando il proprio limite, ogni giorno. Vero è semmai che gli atleti paralimpici hanno superato più difficoltà rispetto ai colleghi normodotati. Ma ancora molte sono le disparità che le persone disabili devono affrontare per avvicinarsi allo sport amatoriale, accedere alle competizioni ed essere
ammessi al professionismo». Secondo Cipelli la ricetta fondamentale per iniziare a cambiare le cose è portare testimonianze e dimostrazioni di atleti paralimpici nelle scuole e far provare agli alunni le discipline con l’obiettivo di sensibilizzare i ragazzi fin da piccoli alla "normalità diversa". E chiude citando Churchill: "La diversità è l’unica cosa che tutti noi abbiamo veramente in comune: festeggiamola tutti i giorni».

[Foto: facebook di F.Cipelli e Fispes ]

Ultimo aggiornamento: 4 Settembre, 13:46 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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