«È quello il tesoro di Felice Maniero», gli immobili confiscati vanno allo Stato

Giovedì 13 Agosto 2020 di Angela Pederiva
Felice Maniero
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VENEZIA - Quelle proprietà devono essere incamerate dallo Stato, perché sono parte del tesoro di Faccia d'angelo. In estrema sintesi, è questo il verdetto della Cassazione sul ricorso presentato da Noretta Maniero e Riccardo Di Cicco, rispettivamente sorella e cognato dell'ex capo della Mala del Brenta, contro il decreto con cui la Corte d'Appello di Venezia aveva confermato la confisca di tre immobili in Toscana. In particolare la lussuosa Villa Paradiso, in cui viveva anche la madre del boss Lucia Carrain, secondo la sentenza è stata acquistata e ristrutturata in periodi che corrispondono «al pieno dispiegamento della riconosciuta pericolosità personale» di Felicetto.

LA VICENDA
Al centro della vicenda sono alcuni dei beni confiscati nel 2018 dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale lagunare, poiché ritenuti frutto dei 33 miliardi delle vecchie lire che Felice Maniero sostiene di aver consegnato a Di Cicco e di aver riottenuto indietro solo parzialmente. La villa di Santa Croce sull'Arno, posseduta a metà dal dentista e dall'ex moglie, acquistata il 27 settembre 1989 con 160 milioni di lire e ristrutturata fra il 1990 e il 2006 con altri 600, «tutti pagati in contanti». La casa di Marina di Pietrasanta (Lucca), intestata al figlio di Riccardo e Noretta, comprata 1'8 luglio 2004 per un importo di 1.020.000 euro. L'edificio di Fucecchio (Firenze), acquisito il 24 febbraio 2011 per 330.000 euro, di proprietà per nove decimi del figlio del professionista e della compagna Morena Galasso e per la restante quota di spettanza dei genitori. Solo quest'ultima era stata liberata nel 2019 dalla Corte d'Appello, mentre per il resto la misura era stata mantenuta: gli immobili erano infatti stati «ritenuti riconducibili a Maniero» e «alle risorse finanziarie ricavate dalla sua attività criminale».

IL RICORSO
Noretta e Riccardo avevano impugnato quella decisione, affermando che le «ingenti somme» ricevute da Maniero erano state «in larga parte restituite» dallo stesso Di Cicco, il quale «in trent'anni di attività professionale» aveva accumulato risparmi «rinvenuti in cassette di sicurezza, investimenti e titoli, oggetti di pregio, per un totale di circa 600.000 euro». Secondo il ricorso degli ex coniugi, il riciclaggio sarebbe «iniziato dopo il 1989, a seguito della estensione dell'attività criminale della mala del Brenta anche al traffico di stupefacenti», ma «prima del 1995 numerosi altri soggetti si occupavano del reimpiego del denaro ricavato dalle attività illecite del gruppo». 

I CONTI
Oltre a rigettare il ricorso di Noretta per un vizio formale, e a non prendere in considerazione le richieste sulle case dei figli, la Cassazione ha però fatto i conti a Di Cicco: «Ha iniziato l'attività professionale di dentista nel 1984, non è stato in grado di dimostrare né che dopo appena cinque anni avesse la disponibilità di 160 milioni di lire in contanti, né che negli anni immediatamente successivi fosse nell'autonoma condizione di disporre di oltre 500 milioni di lire per la prima e più costosa ristrutturazione dell'edificio. È peraltro contraddittorio per un verso ammettere la ricezione di somme cash dall'ex cognato, e poi negare la sperequazione rispetto ai redditi lecitamente percepiti per i periodi in esame, che ammontano per il 1985/89 in lire 108 milioni circa e per il 1990/94 in lire 269 milioni circa (meno della metà di quanto impiegato solo per l'acquisto e la prima ristrutturazione)». Per la Suprema Corte, è invece provata la consegna «di ingenti somme in denaro provento di illeciti, peraltro in contanti racchiusi in borsoni», dall'ex boss al professionista. Nessuna censura dunque al decreto con cui i giudici di Appello avevano rimarcato l'utilizzo «dei legami familiari» da parte di Maniero, «per occultare attraverso plurime operazioni di riciclaggio i cospicui proventi dell'attività criminale».
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