Attentato in Mozambico. Don Lorenzo Barro torna in Africa dopo l'orrore nella sua missione: «Non lascio la nostra gente»

Domenica 9 Ottobre 2022 di Nicola Munaro
Don Lorenzo Barro, 58 anni, è tornato in Mozambico ad un solo mese dal barbaro attacco alla sua missione

VENEZIA - Un mese dopo, eccolo ancora lì. A Chipene, Mozambico. Don Lorenzo Barro, 58 anni, cresciuto nella parrocchia della Beata Maria Vergine a Portogruaro, poi parroco di Aviano, direttore del seminario di Pordenone e missionario in Africa della diocesi di Concordia-Pordenone, è già tornato dove ha rischiato di morire. Era la notte tra il 6 e il 7 settembre: un commando di miliziani e ribelli jihadisti aveva fatto irruzione nella missione a Chipene uccidendo tre persone, tra cui suor Maria De Coppi, 82 anni, originaria di Santa Lucia di Piave.

Nei giorni scorsi don Lorenzo è tornato alla missione. E tutto è ripartito di nuovo.


Perché è tornato?
«Perché è la cosa più ovvia, c’è la nostra gente e non si abbandona. È passato un mese e adesso bisogna rimettere tutto in sicurezza, non appena ci siamo fatti vedere alla missione (anche con il vescovo Alberto Veira, ndr) c’è stato grande entusiasmo. Siamo andati lì e vedere cos’è rimasto e io volevo dare il segnale alla gente che non era abbandonata».


Con lei quella notte c’era anche don Loris Vignandel, originario di Corva di Azzano Decimo. È tornato anche lui?
«No, è sconvolto e aveva bisogno di staccare: è in Italia, sta facendo il tentativo di recuperare i cocci di una notte molto dura».


Cos’ha trovato?
«Semplice, la missione devastata. Per un anno, almeno, andremo in parrocchia senza fermarci a dormire e quindi stiamo studiando altre cose come attività. C’erano dei letti e non ci sono più. Tutto è distrutto, sono state bruciate le cose in chiesa ma la struttura non è danneggiata. C’è ancora la paura e la preoccupazione: la nostra gente però, dopo essere scappata, sta tornando e non ci sono alternative».


Impossibile dimenticare...
«Certo, la paura c’è ancora, per un po’ sarà difficile vedere i fedeli arrivare e fermarsi a dormire per due giorni. È stato un blitz pesante».


Chipene non è stato l’unico assalto di quei giorni...
«I ribelli sono entrati il 2 settembre passando il rio Lurio tra i distretti di Erati e Memba e hanno bruciato la scuola, il centro di salute e varie cose. Poi sono scesi per i sentieri che conoscevano bene e a 14 chilometri da Chipene hanno bruciato la cappella e ucciso una persona, a Chipene hanno ucciso suor Maria e altre due persone, distruggendo la missione e le case dei padri e delle suore, i convitti, le macchine. Il pomeriggio dopo Chipene hanno ucciso altre due persone e bruciato centonovanta case a una decina di chilometri da Chipene, e poi altri tre cristiani».


Cosa ricorda di quella notte?
«Gli spari, i colpi sulle porte, il fuoco in casa».


Vi siete salvati stando fermi.
«Siamo rimasti nella nostra stanza perché non era possibile scappare davanti a loro. Conoscevano la casa, sapevano che c’eravamo e non hanno voluto entrare: hanno scelto, è evidente. La nostra è stata l’unica non aperta su cinque porte, non c’era la volontà, ma questo puoi solo dirlo dopo».


Poi?
«Siamo usciti di mattina perché nella notte, a blitz finito, abbiamo sentito chiaramente una persona che si muoveva ancora. Abbiamo ricomposto il gruppo, organizzato quello che si può organizzare e lì ci siamo resi conto di suor Maria».


Come siete stati accolti al ritorno?
«C’erano mille persone, anche tanti musulmani per un segnale di vicinanza e di solidarietà: c’era l’aspettativa di sentire una parola che rassicurasse. Questa è gente abituata a soffrire, mi stanno già chiedendo di ripartire con le attività, sono ammirevoli: incoraggiano anche noi. Chi è rimasto ha garantito una continuità, ma in questo momento nel nord del Mozambico non si può dire che succede».


Come ripartirete?
«Ora sono nella parrocchia di Cavà e faccio celebrazioni nella zona, stiamo parlando di più di tremila chilometri quadrati. Sicuramente un prete locale mi raggiungerà e lo inseriremo come supervisore del progetto a cui stiamo lavorando assieme alla Caritas diocesana. L’obiettivo era ripartire a Chipene, sono l’unico rimasto dell’equipe missionaria e non posso tirarmi fuori e poi, essendo prete, è anche più facile muoversi».


Che clima c’è?
«Non è che si è spensierati però di giorno si sta più tranquilli. Ora vediamo come fare e valutare l’impatto di quanto successo perché la situazione non è così semplice. I gruppi terroristici hanno reclutato tantissima gente nella fascia costiera e con il blitz sono venuti a rafforzare le loro fila: la preoccupazione è come capire dove sono nascosti questi che sono già ingaggiati. La percezione è che ci sia una rete abbastanza capillare di presenze che finché non è smantellata è pericolosa. Però, visto da qui, questo attacco è sembrato molto mozambicano più che jihadista, insomma non c’era esclusivamente un motivo di radicalismo religioso. Ci sono messaggi da interpretare, se si riesce. Non si può tornare come fosse niente ma si deve capire che messaggio si voleva lanciare a noi come comunità».


Don Lorenzo, lei cosa farà?
«Sono venuto a febbraio 2016 e sono sempre rimasto a Chipene. La prospettiva era di rimanere dieci anni e poi rinnovare l’equipe: ho ancora quattro anni davanti e non mi sono rimangiato l’idea».

Ultimo aggiornamento: 17:45 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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