Renato Darsiè, il vecchio compagno comunista che ringrazia la sanità veneta di Zaia: «Ecco cosa mi è successo»

Lunedì 30 Novembre 2020 di Vittorio Pierobon
Renato Darsiè
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 Il vecchio compagno comunista ringrazia Zaia. «Sono stato salvato dal Covid, grazie alla sanità veneta». Renato Darsiè, veneziano di terraferma, storico sindacalista di Porto Marghera, a lungo consigliere comunale a Venezia, 79 anni portati con vigore, è appena uscito da due settimane da incubo, chiuso nel reparto Covid dell'ospedale di Dolo. «È stata un'esperienza molto dura, ma non ho mai avuto paura di morire sapevo che potevo farcela e mi rendevo conto di essere in buone mani».


Il Covid

L'incubo è cominciato il 26 ottobre, quando si è manifestata una forte febbre. «Avevo i brividi e una grande spossatezza, ho chiamato il mio medico di base, che mi ha subito inviato all'ospedale di Noale per fare un tampone.

Al giovedì la conferma: ero positivo. Isolamento domiciliare. La febbre non passava. La scrupolosa dottoressa, Laura Perocco, mi monitorava regolarmente e domenica mattina mi ha mandato all'ospedale di Dolo a fare una schermografia. Al pomeriggio sono venuti a prendermi in ambulanza. È stato il momento più traumatico. Lasciare casa, la moglie, venire legato su una brandina e partire a sirene spiegate. Hai paura di diventare un numero. Di sparire dai radar del mondo. Di perdere i contatti con i tuoi affetti».


Le cure

Invece Darsiè ha scoperto il vero volto della sanità veneta, fatta di umanità e professionalità. La prima ad accorgersene è stata la moglie Rosanna Zanon. «Quando l'hanno portato via ero davvero terrorizzata. Avevo letto e visto in tv tante storie di malati rimasti isolati dalla famiglia, di gente che era morta senza che i suoi cari potessero vederla e sapere qualcosa. Invece ho avuto un dialogo costante con l'ospedale. Quella sera stessa mi hanno telefonato per informarmi delle condizioni di Renato e il giorno dopo mi hanno dato il numero del medico che lo seguiva indicandomi l'orario per telefonare. Parlare con il medico è stato molto importante, mi sentivo rassicurata».


Le due settimane in ospedale sono state durissime, anche se Darsiè non è mai stato intubato, è stato sufficiente dargli l'ossigeno con il respiratore. «Le prime 24 ore sono state allucinanti, mi hanno tenuto in accettazione, direi parcheggiato in attesa di un posto. C'era tanta confusione. Mi sembrava che ci fosse disorganizzazione. Poi ho capito anche le condizioni in cui deve lavorare il personale sanitario, sottoposto ad uno stress incredibile. Quando sono stato trasferito nel reparto Covid, la vita è cambiata. Ho scoperto un mondo efficiente, personale preparato, grande umanità».


Il mondo di Darsiè era in una stanza. Da lì non poteva uscire, era chiusa dall'esterno. «C'erano due letti - racconta - Il primo compagno di stanza è morto dopo due giorni, poi hanno messo un vecchio marocchino di 91 anni. Era cieco e non sapeva una parola di italiano. Eppure nel corso dei giorni abbiamo trovato un linguaggio comune: la musica. Lui cantava delle nenie, forse canti religiosi, io canzoni popolari. Ho provato anche con L'Internazionale». 


La guarigione

Il compagno Darsiè sorride, anche questa battaglia è vinta. «I primi giorni sono stati molto difficili, avevo le allucinazioni, mi sembrava che in stanza entrassero dei mostri che volevano portarmi via. Ero debolissimo, dolorante. La morte del mio compagno di stanza mi ha turbato. Per fortuna che il personale era molto premuroso. Persone splendide, anche se duramente provate». Lo spirito del sindacalista riemerge: «Hanno turni di lavoro massacranti. Ma capisco che è un'emergenza. Quando si è in guerra le regole saltano».


Ha deciso di raccontare la sua storia, per dare coraggio a chi viene colpito. Finire in un reparto Covid non significa andare incontro alla morte: «Ho visto tanta paura attorno a me - spiega - dalla mia camera sentivo gente lamentarsi, altri piangere, chiedere quanto restava da vivere. Ho visto a volte l'angoscia sul volto degli infermieri e dei dottori. Ma ho visto anche la loro tenacia. E l'umanità con cui ti trattavano. Ad una certa ora passavano gli infermieri con un tablet per permettere di comunicare con la famiglia. Quella era la medicina più efficace».
Tornato nella sua casa, nella campagna miranese, Darsiè sta già programmando un brindisi (all'aperto e distanziati) con gli amici. Dopo una vita sulle barricate, per difendere i diritti dei lavoratori, a quasi 80 anni si è trovato di nuovo in lotta contro un nemico più subdolo. Eppure c'è ancora chi nega l'esistenza del Covid. Darsiè, se avesse davanti un negazionista, cosa gli direbbe? La risposta è in linea con la schiettezza del personaggio: «Che xe un coon».

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