Veneto, 8 cinesi su 10 non dichiarano alcun reddito. Imprese, vita media 900 giorni: già chiuse quando arrivano i controlli

Su 43.000 residenti solo 9.000 hanno presentato i documenti fiscali

Giovedì 14 Aprile 2022 di Alda Vanzan
Controlli della Finanza in attività gestite da cinesi
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VENEZIA - Ci sono cinesi che vivono e lavorano in Veneto, ma che per il Fisco sono dei fantasmi.

Non pagano le tasse, alcuni dichiarano di non percepire manco un centesimo, tanto che vien da chiedersi se vivano di aria. Però, se possono, si portano a casa contributi e aiuti statali, non ultimo il reddito di cittadinanza. Aprono e chiudono botteghe alla velocità della luce, così da risultare introvabili ai controlli. Va da sé che il danno che arrecano agli imprenditori onesti - di concorrenza sleale, e non solo - sia considerevole. I dati? Spaventosi per entità e dimensioni, tanto che lo stupore dei consiglieri regionali veneti della Quarta commissione è stato enorme man mano che il colonnello Fabio Dametto, comandante del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di finanza di Venezia, tratteggiava in audizione a Palazzo Ferro Fini il fosco quadro.


QUANTI SONO E QUANTO PAGANO
Il 10% dei cinesi che vivono in Italia si trova in Veneto. Al 31 dicembre 2021 erano 45.936. Di più ce ne sono solo in Lombardia e Toscana. Alla fine dello scorso anno risultavano attive nella regione 7.219 imprese, pari all'11,2% del dato nazionale. Quanta ricchezza producono queste imprese? Non si sa o, meglio, la ricchezza i cinesi se la tengono ben stretta. Da una elaborazione delle Fiamme gialle negli ultimi 10 anni risulta che su una media annuale di circa 43mila residenti in Veneto solo 9mila (pari al 21%) hanno presentato le dichiarazioni fiscali e di questi 9mila, poco più della metà, il 55%, ha dichiarato redditi nulli. Un 20% ha invece sostenuto di avere avuto redditi inferiori ai 6mila euro.
Tutti poveri in canna i cinesi che in Veneto gestiscono ristoranti, bar, istituti di estetica, parrucchieri, botteghe di pelletteria e accessori per telefonini? Non secondo l'Anagrafe Tributaria che negli ultimi 20 anni ha iscritto a ruolo circa 2 miliardi di euro di debiti fiscali in capo a 8mila soggetti economici. E di questi 2 miliardi di tasse non pagate, quanti soldi sono stati effettivamente recuperati? Una miseria: 80 milioni. Il 3,9%.
Però dei soldi sono stati trovati: quelli in contanti intercettati negli aeroporti e in procinto di prendere il volo illecitamente. Si parla di 6 milioni di euro in banconote fruscianti negli ultimi due anni, per la maggior parte intercettati a cittadini cinesi. I quali hanno anche fruito di indennità assistenziali e previdenziali per 60 milioni.
Al netto dei casi singoli, perché è ovvio che non tutti i cinesi sono evasori fiscali, la sintesi generalizzata è: vivono e lavorano in Veneto, non pagano le tasse, esportano all'estero i guadagni e alcuni prendono anche il reddito di cittadinanza.


I CONTROLLI
Si dirà: perché le forze dell'ordine non controllano? Perché non vanno a vedere se le botteghe dei cinesi pagano l'Iva? Perché non gliela fanno pagare? Il fatto è che i controlli ci sono, come si sono resi conto i componenti della Quarta commissione in Regione ascoltando il colonnello Dametto, tanto che è stato scoperto il sistema messo a punto dai cinesi per farsi un baffo dei tempi della burocrazia italiana. Il fenomeno è soprannominato apri & chiudi: botteghe, ristoranti, bar che aprono i battenti e li chiudono di lì a poco. L'analisi delle Fiamme Gialle del Veneto ha rilevato che le 7.857 partite Iva chiuse dal 2008 al 2021 hanno avuto una vita media di 900 giorni. Due anni e mezzo. Va da sé che il sistema di aprire e chiudere entro il quinto anno di vita, come risulta per il 90% delle imprese cessate, favorisce l'elusione dei controlli: io commerciante non ci sono più, non mi trovano, quando mi trovano sono già andato via, quindi non pago. E il colmo si ha quando negli stessi locali si continua a lavorare cambiando nome e ragione sociale, magari servendosi di un prestanome.


ALLARME VENEZIA
Sotto i riflettori della Finanza c'è in particolare il centro storico di Venezia. Ci si chiede: com'è avvenuto l'acquisto di ristoranti, bar, istituti di estetica, botteghe di pelletteria italiana e vetri di Murano? Da dove è arrivato il denaro? Com'è che i cinesi non vanno in banca a chiedere un mutuo e il prezzo viene rateizzato mediante l'utilizzo di clausole di riserva di proprietà? Ci sono stati prestiti? E da parte di chi? Siamo in presenza di operazioni di riciclaggio? Le indagini - singolari quelle compiute su un negozio di abbigliamento in centro storico e su un istituto di estetica a Mestre - hanno portato le Fiamme gialle a evidenziare la pericolosità dell'insediamento economico cinese nel territorio del Comune di Venezia.


CHE FARE
La Finanza ha spiegato ai consiglieri regionali i cambi di strategia attuati e i nuovi sistemi di indagine per accertare l'illegalità. «Il quadro emerso - ha detto il presidente della commissione, Andrea Zanoni (Pd) - è preoccupante. Per determinate comunità straniere si registra un importante fenomeno di evasione fiscale e una conseguente concorrenza sleale». Alcune misure messe in atto dalla politica sono utili: «Positivo che la Regione abbia sottoscritto diversi protocolli d'intesa con la GdF», ha detto il vicepresidente Roberto Bet (Lega). Ma è chiaro che non basta. Servono nuove norme. Se l'Italia firma trattati bilaterali con la Cina, forse dovrebbe esigere risposte quando a Pechino si chiedono dati su cittadini che qui risultano evasori fiscali. O, come ha detto Raffaele Speranzon (FdI), forse sarebbe il caso di «pretendere fidejussioni bancarie agli stranieri che vogliono aprire una partita Iva». Tutte scelte in mano alla politica.

 

Ultimo aggiornamento: 18:11 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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