Il Piave e i colori di Cesco: «Da tempo un glaucoma mi impedisce di vedere. I disegni sono nella mia testa, mi è rimasta la memoria»

Mercoledì 20 Ottobre 2021 di Vittorio Pierobon
Cesco Magnolato

I 95 anni di Cesco Magnolato, il pittore che nel suo atelier di Noventa di Piave conserva migliaia di opere, sue e di artisti contemporanei come Cesetti, Zancanaro, Tancredi, Guidi: «Da tempo un glaucoma mi impedisce di vedere. I disegni sono nella mia testa, mi è rimasta la memoria» Nel 1954 il primo premio per la Grafica della Biennale: «L'ho scoperto dal Gazzettino. Gli altri nomi erano Ernst, Mirò, Santomaso...».


IL PERSONAGGIO


«Sa cosa mi manca di più? Non riuscire a riconoscere i miei colori». Cesco Magnolato si commuove.

Siamo nel suo studio a San Donà di Piave a quattro passi dalla piazza centrale. È circondato da migliaia di opere d'arte, quadri, disegni, incisioni, sculture, ma non le può vedere, le intuisce nella penombra che è calata davanti ai suoi occhi. Si fa raccontare i suoi quadri dall'amico Giancarlo Dal Maso, che da anni gli fa da angelo custode. «Sono tre anni che non lavoro più, non riesco a tirare fuori quello che sento dentro. I disegni sono nella mia testa, ma non riesco a fissarli sulla tela, perché non riconosco i colori. Il glaucoma è una brutta malattia. Per fortuna mi è rimasta la memoria». E comincia a ricordare con lucidità il suo lunghissimo cammino artistico, che lo ha portato a diventare uno dei grandi espressionisti italiani.


IL COMPLEANNO

Gli anni sono tanti, il 22 ottobre ne compirà 95, almeno ottanta dei quali trascorsi a dipingere e incidere. «Già alle scuole elementari la maestra mi chiamava alla lavagna a disegnare quello che lei spiegava». Una carriera ricca di soddisfazioni a cominciare dal 1954, quando ha vinto il premio per la Grafica della Biennale. «Sa chi erano gli altri premiati? Max Ernst, Jean Arp, Joan Mirò, Giuseppe Santomaso e Pericle Fazzini. Tutta gente che ha fatto una certa strada. Io non sapevo nulla, l'ho scoperto per caso leggendo il Gazzettino al bar, mentre sorseggiavo un caffè. Ho letto il mio nome. Sono rimasto senza parole». È stato il primo di una serie di premi ricevuti. Erano 58 nel 2000, poi ha perso il conto. 


LO STUDIO

Magnolato («Mi raccomando, all'anagrafe sono Cesco, non Francesco») si muove nelle varie stanze dell'atelier, conosce tutto a memoria. Accarezza il vecchio tornio, che si è fatto costruire nel 1956. Incideva direttamente le lastre, senza affidarsi ad artigiani. È uno dei grandi incisori italiani del Novecento. Conosce tutte le tecniche: acqueforti, acquetine, punte secche, maniere nere e a penna, vernici molli. «Un po' l'ho imparato al liceo artistico e all'Accademia di Belle Arti a Venezia, sotto la guida del maestro Guido Cadorin, e un po' l'ho studiato per conto mio. Quando il mio insegnante, Giovanni Giuliani, mi ha chiamato a 25 anni come suo assistente all'Accademia, mi sono sentito in dovere di approfondire la materia». È rimasto titolare della cattedra fino al 1984. Magnolato ama definirsi autodidatta, anche se ha basi solide costruite in anni di studio. «Ho fatto una gavetta molto dura, non sono mai stato aiutato. Non mi sono accorto di diventare un artista. Io volevo raccontare la vita della mia gente. Era il dopoguerra, tempi difficili, miseria e povertà. Le mie opere nascono in diretta, nessuna prova o bozzetto: disegno, incido, se serve correggo. Anche gli errori devono restare, io li considero tracce dei pentimenti dell'autore, fanno parte dell'opera».

 
I SUOI LAVORI

Nelle sue tele c'è potenza espressiva, rabbia, grinta. Lo sfondo è sempre quello delle terre sandonatesi, il suo orizzonte artistico non si è mai mosso da lì. È nato a Noventa di Piave, nell'appartamento sopra l'osteria che gestivano i genitori. «Non ho mai dipinto Venezia, anche se ci ho vissuto quattro anni da studente, abitavo a Cannaregio nel sotoportego dei Vedei». L'evoluzione artistica ha riguardato soprattutto il segno, non la tematica, da quello figurativo a quello simbolico. Pochi tratti identificativi, i girasole, i cartocci delle pannocchie, che ricorrono nelle sue opere. «Io dipingo la mia terra, il mio mondo. Mi fa piacere quando mi dicono che le mie opere si riconoscono. Non c'è un artista che mi abbia ispirato, anche se sento vicinanza con alcuni grandi maestri, Sironi, Boccioni, De Chirico e Balla. Ma, non vorrei sembrare immodesto, io non ho bisogno di copiare, mi basta esprimere quello che ho dentro. La pittura non nasce, c'è già». 


ESPRESSIONISMO

Il suo espressionismo racconta l'epopea delle genti del Piave. La violenza della guerra, i bombardamenti, i rastrellamenti, le fucilazioni, l'esodo. Non dipinge le scene, ma usa una sorta di metafora pittorica, i suoi segni sulla tela racchiudono la violenza, la rabbia, a ribellione. «La mie caratteristiche sono il tratto graffiante e la tematica sociale. I miei quadri nascono dal mio sangue, fanno parte del mio corpo». Ancora oggi, nonostante i problemi alla vista, è in grande attività. Non dipinge ma espone. Solo il Covid lo ha fermato. Ora riparte con le mostre. Ne ha diverse in calendario, continua a ricevere inviti. «A novembre sarò a Moriago della Battaglia, non mi importa che sia un piccolo centro. Sono bravi. Io vado dove mi chiamano e dove c'è passione per l'arte». 


FAMOSO NEL MONDO

Le sue opere si trovano un po' in tutto il mondo: da Alessandria d'Egitto a Bilbao, dalla Cina alla Russia, da Parigi a Berlino, dall'Argentina all'Australia. Nelle stanze dell'appartamento trasformato in atelier, il tempo sembra essersi fermato. Alle pareti, oltre alle sue opere, decine di pezzi realizzati dai colleghi, a volte amici, dei suoi tempi: Saetti, Marangoni, Zancanaro, Basaglia, Cesetti, Tancredi, Guidi e tanti altri. Per ognuno c'è un ricordo un aneddoto. «Tancredi mi deve ancora una lira - scherza - gliel'avevo prestata per comprasi una pastina, era goloso. Non me l'ha mai restituita». Ma qual è il suo rapporto con l'arte contemporanea? Il maestro sorride, la domanda potrebbe scatenare una risposta polemica, ma usa la diplomazia: «Se parliamo di pittura, oggi parliamo di niente. Ormai si fa tutto attraverso il computer. Alla Biennale vengono esposte installazioni. Io faccio fatica a capire, ma non giudico. Bisogna attendere la fine di questo ciclo per esprime un giudizio ponderato». Lo sguardo cade sulle tele accatastate, come dire che la differenza si vede. Lui ha avuto la fortuna che il giudizio della critica sia arrivato presto. A 27 anni lo chiamavano già maestro. Si schernisce. «Lasciano stare, io sono in trincea. Questa casa è il mio mondo, la mia trincea di artista». 


(vittorio.pierobon@libero.it)
Ha collaborato Egidio Bergamo 

Ultimo aggiornamento: 21 Ottobre, 09:38 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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