​Cesco Baseggio, un attore capace di identificarsi coi sentimenti del popolo

Lunedì 13 Marzo 2017 di Alberto Toso Fei
illustrazione di Matteo Bergamelli
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Istrionico, genuino, brillante, capace di identificarsi pienamente col suo tempo e con i sentimenti di un popolo. Cesco Baseggio, forse il più grande interprete del teatro goldoniano (e di altre commedie in veneziano, a volte scritte da lui stesso), iniziò molto giovane a calcare le scene e lo fece quasi per caso: nato nel 1897 a Treviso da Arturo – un violinista abbastanza celebre all'epoca – e dalla soprano Irma Fidora, crebbe a Venezia e seguendo la volontà paterna fu avviato allo studio del violino; ma nel 1913 fu invitato a una rappresentazione de “La locandiera” dall'attore Gianfranco Giachetti e per curiosità provò una parte. Fu una folgorazione: lasciò gli studi di violino e iniziò a dedicarsi interamente al teatro.

Giachetti lo aiutò anche qualche anno più tardi quando, tornato dal fronte della Prima Guerra Mondiale (dove diresse anche il “Teatro del soldato” in Albania, per le truppe dislocate laggiù), lo fece entrare nella compagnia “Ars Veneta”. Pochi anni dopo – era il 1926 – Baseggio fondò la sua prima compagnia e assunse su di sé il ruolo di capocomico, specializzandosi essenzialmente in commedie del repertorio goldoniano, ma non disdegnando Shakespeare, Gallina, Schiller, Ruzante e molti altri. Tradusse in veneziano anche “Il malato immaginario” di Molière.

Ma non di solo teatro si occupò Baseggio: tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta recitò in almeno 37 film (tra cui “Il Corsaro Nero”) e a partire dagli anni Sessanta grazie a lui la Rai decise di registrare e programmare alcune delle più celebri opere di Goldoni, facendole conoscere a un pubblico vastissimo.

A Venezia era seguitissimo, e in un tempo in cui le rappresentazioni teatrali avevano luogo nei campi veneziani, Baseggio si prodigavainfaticabilmente: nella sola serata del 12 agosto 1949, in campo Pisani, in seno al X Festival internazionale del Teatro riuscì a portare in scena ben tre opere di seguito: “Bilora” del Ruzante, “I due Pantaloni” di Carlo Goldoni e “Ludro e la sua gran giornata” di Francesco Augusto Bon.

In tutto ciò si fa spazio anche un'aura di leggenda: come quando, si racconta, mandò una sua poesia in veneziano a Papa Giovanni XXIII – Angelo Roncalli, che conosceva dai tempi in cui era Patriarca di Venezia – in occasione dell'apertura del Concilio Vaticano II (il pontefice a quanto pare apprezzò molto), oppure quando anni prima era riuscito a sancire la pace tra Chioggia e Goldoni, andando a rappresentare lì, al teatro Garibaldi, “Le baruffe chiozzotte” che fino a quel momento non erano mai state messe in scena in città, considerate come erano state per 168 anni (dalla prima al Teatro San Luca di Venezia del 1671) una presa in giro dei chioggiotti. Era l'8 aprile del 1919: prima di cominciare Baseggio uscì davanti al sipario e disse poche parole, come sapeva fare lui. Non ci furono proteste e alla fine la rappresentazione fu un successo.

Il 16 gennaio 1971 arrivò a Catania per dirigere “I quattro rusteghi” di Ermanno Wolf-Ferrari ma fu costretto a sospendere le prove per un fortissimo attacco di asma bronchiale che già in passato l'aveva costretto a sospendere l'attività per lunghi periodi; fu subito ricoverato ma morì pochi giorni più tardi. Oggi riposa sull'isola di San Michele, accanto ad altri interpreti del teatro veneto.




illustrazione di Matteo Bergamelli
Ultimo aggiornamento: 14:59 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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