Luis Oliveira, detto Lulù, il calciatore che ha trovato il suo Brasile sul Brenta

Lunedì 11 Ottobre 2021 di Edoardo Pittalis
Luis Arton Oliveira Barroso, 52 anni
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VENEZIA - Per amore, solo per amore. Cosa può portare un calciatore famoso ad allenare la squadretta juniores di un piccolo centro come Villanova di Camposampiero? «Solo l'amore. Ho una compagna sarda, Rosalba, che ha due figlie che vivono e lavorano nel Veneto. L'ho seguita», dice Luis Oliveira chiamato Lulù. Più di 300 partite in serie A con un centinaio di gol, brasiliano naturalizzato belga e nazionale del Belgio, adesso vive in Riviera del Brenta. Ogni giorno si sposta nell'Alta Padovana per gli allenamenti, prima passa a Borbiago a salutare il suo amico Gianni che ha un ristorante, si ferma all'edicola davanti al campanile che è il più alto della provincia, e via.
Ha indossato anche le maglie della Fiorentina e del Venezia che si incontreranno in campionato la sera del 18 ottobre. Luis Arton Oliveira Barroso, 52 anni, è nato in Brasile a San Louis di Maranhao, un'infanzia difficile e povera riscattata dal calcio in una famiglia dove tutti hanno giocato a pallone: il bisnonno, il nonno, il padre che chiamavano Zezico e una sorella.

Aveva mai sognato di venire un giorno a giocare in Italia?
«Eravamo 12 in casa, i nostri genitori facevano fatica a mandarci a scuola, a darci da mangiare, a vestirci.

Si mangiava una volta sola al giorno, o la mattina o la sera, io preferivo la sera così andavo a letto con la pancia piena. A casa c'era una lunga tavolata, ma nessuno osava sedersi se prima papà e mamma non avevano presto posto. La cosa più importante che ci hanno insegnato è il rispetto. Ero nel settore giovanile della squadra della città e il mister mi faceva allenare con i professionisti: dovevo irrobustirmi e, intanto, imparavo e assorbivo la furbizia del mondo calcistico. A 15 anni sono esploso, si è liberato il posto in prima squadra perché il centravanti, alto e tecnicamente forte ma un po' lento, doveva andare in Europa».

Quando ha capito che il suo mondo sarebbe cambiato?
«Un giorno vedono arrivare un taxi nella nostra strada, sono usciti tutti dalle case, ne scende un signore in giacca e cravatta, era un procuratore e voleva parlare con i miei genitori a nome di una squadra europea. Mio figlio con va da nessuna parte, deve studiare, rispose mamma. Intervenne papà: Forse è un segno divino. Il procuratore lasciò sul tavolo duemila dollari per le prime spese e i documenti da firmare. La mamma non ne voleva sapere, litigò con mio padre, non si rivolgevano la parola, dormivano in camere separate. Mamma è una donna molto religiosa, va in chiesa ogni giorno, una sera al ritorno dalla Messa sembrò un'altra persona e senza dire niente firmò il permesso. Mi aspettavano per partire, da noi non c'è l'inverno, indossavo una maglietta e pantaloni leggeri e le scarpe Superga. Il procuratore mi disse che andavamo in un posto dove c'era molto freddo, mi rivestì da capo a piedi, sciarpa e cuffia. In Europa dal treno Parigi-Bruxelles ho visto per la prima volta la neve e mi sembrava zucchero che cadeva dal cielo. Era il 29 novembre 1985».

Come sono stati gli inizi in Belgio con la maglia dell'Anderlecht?
«Tremavo dal freddo e piangevo perché a 15 anni ti mancano i genitori, i fratelli, gli amici. Ma ero forte mentalmente, sapevo che ero lì perché volevo aiutare la mia famiglia. Però era difficile allenarsi col freddo, un tecnico ebbe l'idea: farmi allenare in un campo coperto per incominciare. Il giorno che ho firmato il contratto ho chiamato mamma col telefono a gettoni. Mi hanno portato da un brasiliano che aveva giocato in Belgio e aveva aperto un ristorante: è stato come rivedere il Brasile, c'era tutto quello che mi mancava, fasolada compresa».

È così che ha finito per indossare la maglia rossa della Nazionale Belga?
«Quell'anno in campionato ho segnato 18 reti. Mi sono sposato e sono diventato cittadino belga e ho esordito subito in nazionale in Tunisia con una rete. La migliore partita con la maglia rossa l'ho giocata nella qualificazione ai mondiali del 1998, contro la Turchia: abbiamo vinto 3-1, ho fatto tripletta, il gol più bello è stato il terzo, sono partito dalla difesa e ho scambiato in velocità con Scifo che mi ha restituito il pallone pronto per andare in porta. Per mio papà è stato un dolore, lui voleva vedermi con la maglia brasiliana e il nuovo allenatore Falcao mi aveva perfino telefonato perché mi rendessi disponibile. Proprio in quei giorni era arrivata la cittadinanza ed ero stato convocato in nazionale. Un giornale di Bruxelles scrisse che avevo rifiutato la chiamata dal Brasile e per mio padre è stata come una coltellata, non voleva più parlare con me al telefono. Quel silenzio è durato un anno, fino a quando l'ho portato in Belgio ed è venuto a vedermi giocare in Nazionale».

A quel punto è incominciata l'avventura italiana?
«Era il 1992, venivo da campionati belli e pieni di gol, le mie finte facevano cascare anche le tribune scrivevano i giornali. Giocavo contro lo Standard Liegi e ho fatto gol, quando mi avvertirono che tra gli osservatori stranieri c'era il presidente del Cagliari e bastò perché i giornali incominciassero a parlarne. Io non sapevo nemmeno dove fosse la Sardegna e del calcio italiano conoscevo solo Inter e Milan e Juventus. Pagato 6 miliardi di lire, sono arrivato a Cagliari a 22 anni, mi ha colpito subito il mare, sembrava un paradiso, sembrava il mio Brasile. È una città straordinaria e così è stato per quattro anni di fila. Il gol più importante è stato quello col quale abbiamo eliminato la Juve dalla Coppa Uefa, abbiamo vinto 2-1 a Torino, Roberto Baggio ha mandato sul palo un rigore che non c'era».

Quattro anni al Cagliari, poi la Fiorentina...
«Con i viola non è stato così facile, dovevo sostituire Baiano che giocava con Batistuta ed erano amici per la pelle. Mi ha voluto Claudio Ranieri, hanno pagato 13 miliardi per avermi: ho conquistato Batistuta e anche lo spogliatoio, mi piace scherzare, sdrammatizzare quando il clima è teso. Sono un Arlecchino brasiliano, ballo e canto. La curva Fiesole dei tifosi ti faceva tremare. Sono tornato al Cagliari dopo tre anni, poi Bologna, Como, Catania... Col Como siamo stati promossi in serie A e sono stato anche capocannoniere del campionato con 23 reti, a fine campionato mi hanno mandato a casa! Capita anche questo a uno che ha giocato 800 partite e segnato 300 gol».

Ha anche indossato la maglia del Venezia.
«Dopo il Como mi ha chiesto il Catania, all'arrivo in aeroporto c'erano centinaia di tifosi che mi hanno preso sulle spalle e ho pensato che avrei dovuto dare tutto per meritare quell'accoglienza. Nel derby contro il Messina, alla seconda partita, finita 3-3 ho messo a segno tre reti. Era il Catania di Gaucci, avevo un contratto a gol e il bonus scattava a 15 reti. Quando sono arrivato a 14 mi hanno messo fuori squadra. Al Venezia sono arrivato nel 2005 col mercato di gennaio, non nel momento migliore, qualche gol l'ho fatto, ma nella società c'erano i segni della crisi: retrocessione e fallimento».

Lunedì prossimo c'è Venezia-Fiorentina, quando giocava lei come è finita?
«La ricordo bene, era marzo del 1999, a Venezia ne abbiamo presi tre, tutti e tre di Recoba. Era il Venezia di Zamparini, allenato da Novellino e con Maniero che segnava sempre. Arrivarono a metà classifica e l'anno dopo, incredibilmente, retrocessero e fallirono. La Fiorentina di oggi è in gran forma, ma il Venezia è in crescita e farà bene».

Adesso fa l'allenatore degli juniores in un paese del Padovano.
«Alleno le giovanili a Villanova di Camposampiero. Il treno per me è già passato, ma va bene così, cerco di insegnare il calcio vero. Ci sono tanti ragazzi ai quali nessuno ha insegnato come stare in campo e nemmeno il valore della sconfitta. Allenare i bambini è bello, fanno casino, fanno domande ma imparano in fretta. Soprattutto ti ascoltano e crescono».
 

Ultimo aggiornamento: 12 Ottobre, 09:40 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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