Ivano Bordon: «Il mio sogno diventato vita: da Marghera all'Inter»

Domenica 15 Marzo 2020 di Marco Bampa
Ivano Bordon con la moglie Elena
VENEZIA Marghera, primi anni Sessanta. Tra i fumi e le ciminiere di quella che era allora la più grande area industriale d'Europa, c'è un ragazzino che se la cava maledettamente bene con un pallone tra i piedi. E meglio ancora con le mani: lo mettono in porta e lui para tutto, anche le malelingue che dicono che da queste parte non nascono campioni. Non è così se ti chiami Ivano Bordon e voli da un palo all'altro con la velocità di una pallottola. A suon di parate ha scalato le vette del calcio, fino ad arrivare in cima: scudetto e Coppa del Mondo; cosa c'è di più, e di meglio, per un calciatore? In tasca custodisce gelosamente un record: essere l'unico ad aver vinto un Mondiale sia da giocatore (Spagna '82) che da allenatore (Germania '06).
Adesso che è il tempo dei ricordi, l'ex ragazzino oggi 68enne, ha fissato le sue memorie in un libro appena uscito: In presa alta (ed. Caosfera, 16 euro, in vendita online), opera a quattro mani con il giornalista Jacopo Dalla Palma, che volendo si può leggere anche come impresa alta: «Ci pensavo da anni, era arrivato il momento giusto per farlo».
Bordon, riavvolgiamo il nastro: da dove parte il racconto di una vita di pallone?
«Ricordo i primi calci ad un pallone, dati all'oratorio, e poi per strada con i ragazzini, in un campetto a Marghera che adesso è sparito, perché sopra ci hanno costruito la tangenziale di Mestre. E ricordo soprattutto il patronato, dietro la chiesa di Sant'Antonio, con don Agostino, che purtroppo ci ha lasciato qualche anno fa: partite memorabili».
Chi la scoprì tra tanti giovani promettenti?
«Fu Elio Borsetto, quando giocavo nella Juventina Marghera, prima mi aveva portato a giocare nella Miranese, fino a quando mi presero all'Inter. Avevo 15 anni, dentro c'era la passione, non pensavo di farne una professione. I primi furono anni difficili, lontano dalla famiglia, vivevo nel pensionato: non era facile».
Allievi, Primavera poi in prima squadra. Esordio folgorante a 19 anni: scudetto al primo anno nel 71 e debutto nientepopò di meno nel derby col Milan. Perso 3-0, però
«Entrai già sull'1-0 perché si era fatto male Vieri. Presi gol da Rivera su rigore, poi un altro me lo fece Villa. Ma la sconfitta passò in secondo piano, rispetto all'enorme soddisfazione di aver debuttato in serie A».
La consacrazione internazionale arrivò nel 72 nella famosa sfida col Borussia Mönchengladbach negli ottavi di Coppa Campioni, passata alla storia per il caso della lattina...
«Eravamo già sotto 5-1, io sedevo in panchina. Invernizzi, che fu il mio scopritore, a un certo punto mi disse scaldati che entri, ma l'atmosfera era strana, perché Boninsegna era stato colpito in testa dalla lattina. L'Inter era già forte, ma di fronte avevamo in pratica la nazionale tedesca dell'epoca: presi gol su rigore, un altro me lo fece Netzer. Poi, grazie alla magia dell'avvocato Prisco, il match fu annullato e nel frattempo a Milano avevamo vinto 4-2».
Nel ritorno, giocato apposta dai tedeschi a Berlino per avere più pubblico, fischiavano metaforicamente le pallottole nella sua area. Ma non passò neanche uno spillo, giusto?
«Finì 0-0. Parai di tutto, anche un rigore dopo un quarto d'ora. Da poco sono riuscito ad avere la partita in dvd e me la sono rivista: ci sono state almeno 12 uscite alte, pulite ed altre cinque-sei parate difficili. A distanza di anni mi emoziono ancora a rivederle».
E lì nacque anche il suo soprannome Pallottola 
«Me lo affibbiò Mazzola, ma me lo diceva già in allenamento. Da quella sera mi è rimasto incollato per tutta la carriera».
Berlino è nel suo destino di giocatore: nel 2006 ci vinse un Mondiale da allenatore nello staff di Lippi. Come nacque quell'impresa?
«Come spesso succede all'Italia, ci andammo sommersi da polemiche e problemi per via di Calciopoli. Cominciammo subito a fare buoni risultati e avevamo capito che, se superavamo l'Australia, saremmo entrati in un corridoio che ci avrebbe portato alla luce, cioè alla Germania in semifinale. Superato quell'ostacolo, ce la siamo giocata alla pari con la Francia: ci ha un po' favorito l'espulsione di Zidane, ma il match fu equilibrato e alla fine fummo premiati ai rigori».
Anche il Mondiale vinto da giocatore, Spagna 82, fu all'insegna delle polemiche iniziali, con tanto di silenzio stampa della squadra. Come ne usciste?
«Li partimmo male, passammo il girone con tre pareggi solo per la differenza reti. Grazie al silenzio e lasciando a Zoff l'incarico di parlare con la stampa, ci siamo concentrarti sulla forma migliore da recuperare. Superato il girone impossibile con Argentina e Brasile, dentro di me pensai che non ci avrebbe fermato più nessuno. Emotivamente fu un'esperienza indimenticabile, ricordo che in finale all'esultanza per i gol di Rossi, Tardelli e Altobelli, scattai su con i miei compagni dalla panchina, che era infossata, e la polizia venne a spingerci dentro».
Ma tra lei e Zoff chi era il più taciturno? Un bel derby tra portieri...
«Lui friulano, io veneto, ma entrambi amavamo parlare poco, perché preferivamo la sostanza delle cose. Quando c'era da esporsi, lo facevamo con chiarezza».
Dopo il trionfo a Madrid, il rientro sull'aereo presidenziale con la mitica partita a scopone tra il Presidente Pertini, Bearzot, Zoff e Causio: ma è vero che fecero vincere Pertini altrimenti si arrabbiava?
«Questo non lo so (risata) ma certamente Pertini è stato un grande Presidente».
Lasciò l'Inter nell'83, dopo 17 anni di onorato servizio (281 partite, 2 scudetti e 2 Coppe Italia): ma fu un addio amaro, giusto?
«L'Inter ce l'ho dentro, mi ha cresciuto come giocatore e come uomo. Non mi aspettavo, quando ero prossimo alla svincolo, di non essere riconfermato. Non venni trattato bene, mi faceva girare le scatole all'epoca che mi facessero passare da mercenario, invece la verità era un'altra. Non avevo procuratore, nei colloqui non furono chiari con me, bastava mi dicessero che avevano altri progetti. Anche perché»
Anche perché?
«A gennaio c'era una società che mi aveva chiesto all'Inter assieme ad Oriali: era la Juventus, ma i dirigenti nerazzurri dissero no e la tirarono in lungo per il rinnovo. Alla fine parlai con la Juve, ma nel frattempo avevo raggiunto un accordo con la Samp e non volli venire meno alla parola data. Ma potevo andare alla Juve, questo sì».
Oltre 500 partite tra i professionisti: la parata più importante?
«Il rigore col Borussia, ma la più bella fu in un derby, 0-0 a 5' dalla fine: respinta sul rigore di Calloni, nuova deviazione sulla ribattuta di Aldo Maldera e palla in corner. Di ricordi belli per fortuna ne ho tanti».
La vittoria più bella?

«A Catania 1-0, quella del sorpasso al Milan che ci regalò lo scudetto nel 71. E poi il record di imbattibilità, che dura dal '79-80: spero sempre che Handanovic lo batta, vuol dire che l'Inter va bene. Tra l'altro mi rivedo in lui: non fa scene, non sbraita, sempre tranquillo, mai una polemica».
E l'avversario più forte mai incontrato?
«Cruijff, senza dubbio. Ho avuto anche la fortuna di giocare contro Pelè, in un'amichevole a San Siro col Santos. Avevo 19 anni, venne a stringermi la mano dopo una parata. Una soddisfazione che mi tengo stretta».
Come giudica il calcio di oggi?

«È completamente cambiato: velocità, allenamenti, regole, preparazione, ora è tutto più veloce, frenetico, fisico. E anche l'ambiente: c'è meno genuinità. Perché è il mondo ad essere cambiato».
Marco Bampa
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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