Furti e razzie della banda sinti, la boss aveva casa popolare e reddito di cittadinanza

Giovedì 14 Maggio 2020 di Davide Tamiello
Blitz dell'Arma
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VENEZIA - La boss con il reddito di cittadinanza e con la casa popolare. Bruna Hodorovich, leader della banda di sinti con base tra Cavarzere e Mestre accusata dalla procura di Venezia di aver messo a segno oltre 100 furti per un bottino da mezzo milione di euro, era riuscita ad avere qualunque genere di aiuto pubblico.

Dall’assegnazione da parte del Comune di un appartamento di edilizia popolare per la sua famiglia, al Passetto, località di Cavarzere (anno 2004). I servizi sociali se la ricordano bene: la sua era una visita fissa, quasi quotidiana, per chiedere sostegni di ogni tipo. Introdotto il reddito di cittadinanza, si era fatta subito avanti: ovviamente le attività criminali della famiglia non finivano certo nella dichiarazione dei redditi o nella scheda Isee, quindi per lei non è stato difficile rientrare nei parametri.

Quando i carabinieri hanno cominciato a indagare, hanno scoperto che la donna percepiva oltre 900 euro al mese. «Inoltreremo la comunicazione all’Inps - specifica il maggiore Emanuele Leuzzi, comandante del nucleo investigativo di Venezia - che poi valuterà se procedere con la sospensione del sussidio». Non era la sola della famiglia ad aver avuto accesso al reddito di cittadinanza: anche una delle figlie (che però vive a Milano e non è tra i 15 indagati dell’inchiesta) l’aveva ottenuto. 

Bruna Hodorovich, quindi, era una leader su più fronti. Da una parte provvedeva alla sua famiglia con mezzi leciti, battendosi come una leonessa per ottenere gli strumenti di welfare previsti dalla legge per chi è in difficoltà. Dall’altra, però, gestiva con cura le reali entrate del gruppo: i furti, messi a segno tra le province di Venezia, Padova, Rovigo, Ferrara, Verona e Mantova, passavano sempre attraverso le sue direttive. Il reddito di cittadinanza, da un certo punto di vista, era il suo alibi: entrata minima, residenza popolare. Niente stile di vita da nababbo, quindi, nonostante i proventi delle scorribande, giusto per rimanere nascosti e non avere noie fiscali. 

LE MULTE
L’inchiesta che ha portato in carcere Bruna, 44 anni, il marito Diego Fulle, 45, e altri 4 componenti della famiglia, più due agli arresti domiciliari, è partita dalla ribellione della nuora, la moglie del figlio Patrik Hodorovich, 27 anni. La giovane, 20 anni, madre di due bambini, stanca di essere picchiata dalla mattina alla sera perché contraria a partecipare alle batterie criminali organizzate dai suoceri, era riuscita a fuggire e dalle sue dichiarazioni i carabinieri avevano iniziato a ricostruire le trame dell’organizzazione (il pm Giorgio Gava, titolare del fascicolo, contesta l’associazione a delinquere).

La famiglia, dopo averla ripudiata, aveva trovato il modo di fargliela pagare. La sua auto era rimasta a casa e Patrik, Bruna e Diego avevano deciso di usarla senza nessun tipo di remora. Risultato: alla ragazza per mesi erano arrivate decine di multe per eccesso di velocità, passaggio col rosso e qualunque altra infrazione possibile del codice della strada. Questo fino a due mesi fa, quando l’auto era stata intercettata dalla polizia locale a Sirmione (Verona), scoprendo così che alla guida non c’era la giovane ma i suoi famigliari.

Indagini decisamente complicate, quelle dei carabinieri, anche per la difficoltà di trovare un interprete. Sono in pochi a parlare la lingua sinti, pochissimi quelli disposti a collaborare con le forze dell’ordine. Un contributo fondamentale è arrivato da un nomade di un’altra comunità sinti che ha accettato di aiutare i militari traducendo le tante pagine di intercettazioni raccolte in un anno e mezzo di indagini. 

Ultimo aggiornamento: 15 Maggio, 09:00 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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