Tragedia e creatività: la sfida
della cinquantaseiesima Biennale

Mercoledì 6 Maggio 2015 di Sergio Frigo
Tragedia e creatività: la sfida della cinquantaseiesima Biennale
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VENEZIA - Temi duri, che suscitano passioni forti ed emozioni profonde, anche se filtrati attraverso l’arte e la poesia. La 56. Biennale, di cui ieri si è aperta la vernice, infila le mani nell’attualità e nei conflitti del secolo, e le ritira intrise di lacrime e di sangue, ma anche pronte a colpire, ad applaudire, a stringere altre mani. I colpi allo stomaco cominciano subito, coi rumori che provengono dalla sala a fianco a quella dedicata a Fabio Mauri, al Padiglione centrale, col muro di valigie dei migranti e la video-intervista a Pasolini sul fascismo: provengono da un video di Christian Boltanski, che ritrae una larva umana infangata e insaguinata che tossisce e vomita (ma lo stesso artista alle Corderie presenta in un altro video la sua celebre installazione con le campanelle giapponesi nel deserto cileno).

Non è da meno la seconda entrata alla mostra, proprio all’Arsenale, dove davanti alle scritte al neon di Bruce Nauman su odio e amore, vita e morte, si stagliano i cespugli di sciabole e coltelli dell’algerino Adel Abdessemed; oppure poco più in là, in un allestimento zigzagante che sfrutta al massimo gli spazi ma complica la visita, le motoseghe sospese e grondanti sangue dell’italo-berlinese Monica Bonvicini, che alludono alle troppe stragi del nostro tempo.

Ma i risultati migliori arrivano dove l’urgenza della denuncia e della lotta si lascia "condizionare" dall’arte: è il caso della sala di Jeremy Deller al Padiglione Centrale, su cui campeggia un manifesto nero con la scritta "Hello, today you have day off", un vero sms inviato da una ditta ad un lavoratore a chiamata (come dire: "oggi il tuo lavoro non ci serve"); accanto un colorato juke-box suona dei dischi coi rumori di fabbriche ormai dismesse. Il Padiglione centrale, vero cuore della Biennale, ospita naturalmente l’Arena dove si legge ininterrottamente il Capitale di Marx, ma anche gli inquietanti "uomini macchina" inscatolati del giapponese Tetsuya Ishida, o la dolente donna nera della keniota Wangechi Mutu che anela al mondo da una gabbia di tortura che allude fin troppo scopertamente alle sofferenze di un’Africa che (nel video collegato) sopporta sulle spalle curve il peso dell’Occidente.

C’è tanta Africa in questa mostra, a coniugare il tema dei futuri possibili proposto dal curatore nigeriano Okwui Enwezor (anche se nei giorni scorsi dopo il Kenya si è ritirata anche la Nigeria, per ragioni di budget dopo il cambio di governo), e tantissima Cina, che esonda dal suo pur vasto padiglione che esalta orgoglio nazionale e tecnologia: Cina nell’ex padiglione keniota, a San Servolo, e nella partecipazione di San Marino, con lo stato più piccolo assieme al più grande a trattare di dialogo e accoglienza, esponendo al Telecom Centre un centinaio di lupi (di ferro) di Liu Ruo Wang che assediano una riprotuzione della Pietà di Michelangelo; e Cina alle Gaggiandre dell’Arsenale, dove Xu Bing (vice presidente dell’Accademia delle arti) ha realizzato due giganteschi draghi volanti che rimandano al mito della fenice. Mostra di contrasti, come la Grecia che esibisce la sua povertà come uno schiaffo all’Europa, e di fronte il nuovo e avveniristico padiglione australiano, inaugurato ieri pomeriggio da Cate Blanchett dopo un rito aborigeno e allestito con grande pathos da Fiona Hall. Mostra in cui il rigore cimiteriale del Padiglione Italiano, con l’ancora-crocifisso di Claudio Parmiggiani o le statue di Vanessa Beecroft nascoste da pesanti lastre di marmo (perfette metafore di un paese bloccato dal suo passato e incapace di valorizzare la propria bellezza) confligge con la vitale creatività di molti padiglioni stranieri, "poveri" compresi: fra tutti - oltre al "solito" Giappone con migliaia di chiavi legate da nastri rossi, all’ingegnoso padiglione canadese con una macchina per distribuire soldi, a Israele protetta da centinaia di pneumatici - spicca per rigore e poesia quello all’Isolotto dell’Arsenale con 18 registratori che restituiscono le voci delle popolazioni del continente che stanno scomparendo. Un «parlamento di forme - come l’ha voluto Enwezor - che non definiscono il futuro ma fanno intravedere una molteplicità di prospettive».

Non manca naturalmente il côte mondano, con decine di yacht ormeggiati in bacino e la presenza di alcuni vip: oltre a Cate Blanchett il regista di "12 anni schiavo" Steve Mc Queen, che espone alle Corderie, e il collega Tom Hooper ("Il discorso del re"), e sono attese Naomi Campbell e...

Marisa Laurito, che espone le sue opere per il Guatemala.

Ultimo aggiornamento: 21:34 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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