Intervista a Segre: «Sono un regista, ci crede anche mia mamma, quasi. Lei dice che papà lo aveva capito...»

Lunedì 7 Ottobre 2019 di Edoardo Pittalis
Intervista a Segre: «Sono un regista, ci crede anche mia mamma, quasi. Lei dice che papà lo aveva capito...»
«Dopo "Io sono Lì" mi sono sentito indubbiamente un regista. Ci crede anche mia mamma, quasi. Lei dice che papà lo aveva capito, ma non ho mai potuto confrontarmi con lui, è morto dieci anni fa». Il regista veneto Andrea Segre, 43 anni, nato a Dolo, autore di film esportati in tutto il mondo e premiati in Europa e in Italia, si prepara al nuovo film, ancora senza titolo. Lo girerà il prossimo anno: «Sarà dedicato alla trasformazione turistica di Venezia, sarà girato interamente alla Giudecca e sempre prodotto dalla Jole Film. Racconterà la tensione dentro una famiglia veneziana che deve decidere se piegarsi completamente al turismo di massa». Per il cinema Andrea Segre ha lasciato una promettente carriera universitaria a Bologna dove insegnava solidarietà internazionale alla facoltà di Sociologia. 
 
La strada dello spettacolo come rottura con un ambiente familiare accademico?
«In famiglia non c'erano parenti portati per le arti, a parte un cugino di Chioggia con la passione per la fotografia, ma di mestiere faceva il chimico. Io ho fatto studi classici anche se ho sempre avuto la sensazione che funzionassi meglio per le cose scientifiche, ma ho detto basta: papà chimico e docente al Bo, nonno ingegnere chimico alla Vetrococke, l'altro nonno matematico, ma nessun artista. Anche all'università ho voluto cambiare, ho fatto Sociologia e scienza della comunicazione a Bologna e Umberto Eco ci ha subito detto che dovevamo imparare qualcos'altro perché quella facoltà fosse utile per trovare lavoro!».
Come è arrivato al cinema?
«Tutto questo l'ho fatto anche filmando, all'inizio come documentazione per lo studio e mi permetteva tanti viaggi con la scusa dell'interesse accademico. Il mio lavoro piaceva, hanno incominciato a invitarmi ai festival. Leggevo sui cataloghi Andrea Segre regista e pensavo che forse poteva funzionare, anche se in famiglia lo consideravamo un entusiasmo adolescenziale. Per me è stato molto utile l'incontro col nuovo cinema digitale e la riscoperta del documentario che nel Veneto era cresciuto: Alessandro Rossetto con il suo Chiusura aveva appena raccontato la chiusura del negozio da parrucchiera della madre alla Guizza a Padova. Marghera Canale Nord del 2003 è stato il primo lavoro col quale sono stato a Venezia, il primo affrontato con consapevolezza della regia. Ma stavo ancora facendo il dottorato, ero in un percorso nel quale non c'era soltanto il cinema».
Quando ha deciso di lasciare l'insegnamento?
«Avevo un contratto di sociologia a Bologna e fino al 2008 ho fatto insieme le due cose tenendole vive: facevo documentari e insegnavo solidarietà internazionale. Nel frattempo, sono anche diventato padre di Agnese e bisognava trovare un modo per vivere, con una famiglia che non mi ha mai abbandonato, anche se a 19 anni mio padre mi aveva gentilmente cacciato di casa: Vai fuori, così impari!. Dovevo fare cose che mi piacevano, ma che funzionassero. All'università un professore importante mi disse che dovevo decidere, così nel 2008 ho mollato gli ormeggi e ho deciso di entrare in un progetto al quale tenevo molto, però completamente instabile dal punto di vista economico. In una scuola di italiano per stranieri mi hanno chiesto di fare cinema con loro, pochi soldi, ma tanto entusiasmo, ed è nato Come un uomo sulla terra che è il documentario col quale sono andato ai festival più importanti».
Ha avvicinato e lasciato anche il mondo televisivo?
«È l'altro mondo dal quale sono scappato. Agnese aveva sette mesi e certi amici per aiutarmi mi hanno offerto di lavorare in una trasmissione che faceva doc-serie, personaggi della realtà riscritti per la televisione. Dovevo fare Prima figlia, coppie che avevano il primo figlio e dovevano imparare a fare i genitori. Lo stipendio era buono, seguo la prima coppia, lui che non sa cambiare i pannolini, la suocera che interviene, loro che litigano. Era la realtà che doveva adattarsi al format, non viceversa. Mostro le immagini al produttore e quello mi dice: Sei bravo, ma fai una marea di immagini che a noi non servono. Era l'esatto opposto del cinema di documentazione, sono scappato, brutalmente, ho chiamato la mamma di mia figlia e le ho detto: Mi spiace, ma non ce la faccio!. E mi son messo a fare laboratori con i richiedenti asilo. Così incomincia il lavoro parallelo che mi permette di crescere, di entrare dentro la tematica che mi aveva sempre interessato: l'emigrazione. E questa storia fa crescere il gruppo di Zalab, Laboratori Zavattini, per ricordare l'idea di cinema popolare. ZA è anche il mondo dalla A alla Z, all'incontrario».
Quando ha deciso di passare al lungometraggio?
«Nel 2009 mi dico: ma davvero posso fare anche il regista? Era un mondo che volevo provare a conoscere, sapendo che non c'era solo la regia, ma la scrittura, gli attori È allora che nasce Io sono Li. Scrivo il soggetto e vado in giro a proporlo con Francesco Bonsembiante, caro amico di Mazzacurati e socio di Marco Paolini e della sua Iole Film. Decidiamo di fare il percorso impegnativo dei laboratori dei Festival, a Roma il progetto prende il primo premio e con quei soldi completiamo la sceneggiatura e andiamo all'Atelier di Cannes, dove troviamo l'interesse dei produttori francesi e questo riaccende l'attenzione di quelli italiani che l'avevano scartato come storia troppo locale. Poi RaiCinema ci dà l'ok e nel 2011 Io sono Li va a Venezia e un anno dopo ha una vita e una fortuna internazionale: quel film ritenuto troppo locale è stato venduto in 50 paesi nel mondo e ha avuto anche il premio Lux del Parlamento Europeo come pellicola che meglio racconta un pezzo di cultura europeista, oltre alle nomination al David di Donatello e ai Nastri d'Argento. Entro in questo modo nella mia carriera cinematografica. Dopo sono venuti La prima neve e L'ordine delle cose, per citare qualche titolo».
Ma esiste un cinema veneto?
«Certo, ne facciamo parte e mi porto dietro protagonisti di questo cinema come Battiston e Citran che sono in tutti i miei film. Battiston mi piace perché ha una capacità istintiva di respirare i personaggi che scriviamo, pensando a lui, con Marco Pettenello che viene dalla scuola di Mazzacurati. Guardiamo con attenzione anche al panorama di attori che ci circonda: Andrea Pennacchi che è un grande, poi c'è una bellissima generazione di giovani attrici venete da Anna Bellato a Sara Pigozzo a Marta Dalla Via, a Giuliana Musso. In Italia si produce tantissimo, ma quella che si vende all'estero è l'Italia del Centro-Sud, Roma-Napoli, la Sicilia della mafia».
Come è andata all'ultima Mostra del cinema di Venezia?
«Col documentario Il pianeta in mare, scritto con Gianfranco Bettin, ho provato a riproporre un tema enorme che sembra rimosso quasi non esistesse più: l'industria di Porto Marghera. Mi auguro che il nostro viaggio dentro quei posti e il racconto di tante vite possa essere utile. Sono vent'anni che demoliamo, ma poi? si chiedono nel film due ingegneri. E c'è l'aspetto della Fincantieri che a me interessa moltissimo: 67 nazionalità che lavorano su 4500 operai. Lo sa la gente che le navi da crociera si saldano a mano? Servono 2500 saldatori a mano, ognuno col suo casco, i suoi occhiali, il suo saldatore!».
Un sogno?
«C'è una novella di Melville, Benito Cereno, ogni tanto la rileggo pensando a come ci si potrebbe fare un film. È la storia di una rivolta di schiavi che su un mercantile spagnolo lottano per farsi riportare in Africa. E si fanno uccidere».
Edoardo Pittalis
Ultimo aggiornamento: 15:48 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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