Alessio Nardi, l'ingegnere che ha portato per anni in scena Arlecchino a Mosca

Lunedì 9 Gennaio 2023 di Edoardo Pittalis
Alessio Nardi, l'ingegnere che ha portato per anni in scena Arlecchino a Mosca

CAVALLINO-TREPORTI - Alessio Nardin, ingegnere civile del Cavallino, ha lavorato per anni a Mosca. Non per costruire case, ma per mettere in scena importanti opere teatrali. Sul palcoscenico ha vissuto con ucraini e russi, è convinto che tra poco si siederanno al tavolo della trattativa e questa guerra disperata e atroce che dura da un anno avrà una tregua. Ma non una pace. «Perché quello che è accaduto lascerà un'ondata di odio che non esisteva e che si propagherà». Aggiunge Nardin: «Noi occidentali facciamo due errori: il primo è pensare che il problema sia Putin, se salta lui non è detto che ne arrivi uno più ragionevole; l'altro è non considerare che tra Ucraina e Russia questa guerra ha definitivamente cambiato le cose». Per colpa della guerra Nardin non può tornare a Mosca dove ha lasciato in sospeso progetti e spettacoli, compreso quello legato alla riscrittura di Pinokkio. «Ho ottimi rapporti con la Russia, ma adesso è diventato difficile andarci, per i visti e non solo: la situazione economica ha svuotato anche i teatri. Ero al telefono con la mia traduttrice quando ha chiesto asilo all'ambasciata lituana».
Alessio Nardin, 50 anni, ha cambiato un paio di volte la sua vita.

Alla fine la passione per il teatro ha preso il sopravvento sulla carriera di ingegnere. Tutto parte da Cavallino Treporti, l'ultimo lembo di terra che separa la laguna veneta dall'Adriatico. Era quasi interamente demanio militare, impossibile costruirci, così il Ministero della Difesa assegnò lotti sui quali aprire campeggi. Tra i primi assegnatari anche il Partito Comunista, il campeggio si chiamava Primo Maggio. Oggi Cavallino è la capitale europea del turismo all'aria aperta, la prima spiaggia del Veneto con oltre 6 milioni di presenze.


Come i Nardin da pescatori e contadini si sono trasformati in operatori turistici?
«Mio padre Maurizio veniva da una famiglia molto povera che stava in riva al mare. Il bisnonno aveva combattuto la Grande Guerra e come premio aveva ricevuto una baracca militare di legno che era servita come punto di avvistamento. Nel secondo dopoguerra si sono trasformati da pescatori in agricoltori e poi si sono dedicati al turismo. Questa zona era un po' far-west, i primi turisti piazzavano le tende e si lamentavano che sul tetto cadessero le pesche; così hanno tagliato gli alberi. I miei nonni hanno aperto un piccolo campeggio, il Boschetto, e la casa dove sono nato era dentro. Poi papà, aiutato da mamma Rosetta, ha avviato un'attività commerciale a Jesolo con un piccolo supermercato. D'inverno c'era il vuoto e potevo correre a perdifiato in bicicletta. D'estate vivevo tra bambini che parlavano lingue diverse. Il lavoro era totalizzante, la stagionalità era lo scopo di tutto: ghe xe a stagion!'. Le persone si sposavano, e si sposano ancora, da ottobre a fine stagione. Era e resta un tipo di cultura contadina che conosce la ritualità. C'era un periodo in cui si incominciava a sentire nella nebbia l'odore della carne e del mosto, era novembre e si ammazzava il maiale e si faceva il vino».


E la passione per il teatro?
«Alle medie avevo un professore di italiano che mi fece conoscere il teatro, era veneziano, aveva avuto la poliomielite da piccolo e cercava un luogo che non avesse ostacoli architettonici. Andava in carrozzina a cacciare a Punta Sabbioni. Ci propose di fare il teatro, accettai perché ero timido e poteva aiutarmi. Mise in scena I Rusteghi di Goldoni e mi affidò la parte di sor Leonardo: fu passione subito, l'anno dopo abbiamo fatto Sior Todaro brontolon, ero un ragazzino di 13 anni credibile nei panni di un vecchio. Ho fatto il liceo al Lido di Venezia, il Lido ha in comune col Cavallino che sono luoghi di una piacevole malinconia».


E la sua professione di ingegnere?
«Mi sono laureato in Ingegneria civile a Padova e ho fatto il dottorato di ricerca a Bologna in scienza delle costruzioni. Avevo già una carriera avviata al Dipartimento Costruzioni del Bo dove insegnavo calcolo e per la ricerca scientifica giravo l'Europa seguendo i progetti sui trasporti. Ma c'era sempre dentro questo amore per il teatro e doveva proprio essere evidente perché in famiglia avevano capito. A un certo punto guardai la mia vita, lavoravo e guadagnavo bene, ma dissi a me stesso che se volevo fare teatro dovevo scegliere: avevo 28 anni, teatralmente ero già quasi vecchio. Feci un colpo di testa, incominciai a frequentare corsi professionali. Avevo anche progettato un teatro senza sapere che un giorno ci avrei lavorato: il Teatro delle Voci di Treviso».


Qual è stato il primo lavoro da attore?
«Mi avvicinai alla maschera, incominciai a guadagnare col nuovo mestiere e col tempo ho capito che non sarei quello che sono se non avessi fatto ingegneria: tutto quel patrimonio tecnico, il tipo di cultura estremamente concreta, finiscono per risultare determinanti nella pratica teatrale. Ho fondato una Compagnia internazionale di commedia dell'arte e abbiamo girato l'Europa. Frequentavo il grande Ferruccio Soleri, l'Arlecchino per eccellenza. Ho indossato anche la maschera di Arlecchino, mi chiamano ancora in giro per il mondo. È stata la prima parte della mia strada».


E la seconda parte?
«Studiavo la Biomeccanica teatrale con uno dei grandi maestri, Nicolai Karpov capo dell'Accademia d'arte drammatica russa. Mi ha fatto capire che ero pronto a formarmi come regista. Sapevo che mi mancavano ancora gli strumenti adatti e nel 2009 incontro a Venezia Anatoli Alexandrovic Vasiliev, uno che ha messo un punto fermo sul teatro mondiale alla fine del Novecento. Mi ha coinvolto in progetti a Parigi, a Mosca, al Grotowski Institute. Con questo signore, che considero il mio padre artistico, lavoriamo assieme da dodici anni: ho incominciato a fare il regista teatrale: dallo Stabile del Veneto fino a Strasburgo e al teatro Stanislavskij di Mosca e alla Scuola superiore di arte drammatica di Spagna. Poi il regista cinematografico, sto concludendo le riprese di Epos et labor: sei lavoratori di sei regioni d'Italia, ogni lavoratore è associato a un mito greco. Abbiamo presentato in anteprima i primi due episodi all'ultima Mostra di Venezia: Ulisse è un operaio vicentino in un'incubatrice di pulcini, è un africano originario del Ghana».


Una lunga esperienza in Russia prima della guerra?
«Ho lavorato tanto in Russia, per quattro anni anche al Teatro Nazionale di Mosca per il quale ho fatto una riscrittura contemporanea di Pinokkio, tre spettacoli di quattro ore, di uno sono anche il regista, Il teatro di Mangiafuoco. Ho curato tutto il lavoro di preparazione dei 67 attori coinvolti. Per la lingua mi ha aiutato un interprete straordinario, un docente universitario che si è rifugiato in Lituania. Questo lavoro ha vinto il premio come miglior spettacolo del 2019 del teatro russo, sono stato richiamato l'anno dopo a realizzare Il sogno di una notte di mezza estate in chiave contemporanea. Il successo è stato tale che resterà in cartellone per tutto il 2023».


Adesso cosa fa?
«Ho lavorato al teatro nazionale di Strasburgo per un'opera di Cechov con la grande attrice Valerie Dreville. Da un anno lavoro a Parigi a un progetto con la Sorbona dove terrò una master class su Pirandello».
Cavallino d'inverno ha colori sfumati di grigio e di nebbia. Non si può nemmeno vogare, arte che si apprende da piccoli. Qui sono cresciuti campioni olimpici come Bergamo e Santin che nel 1936 a Berlino vinsero l'argento, come il grande Daniele Scarpa oro ad Atlanta nel 1996. I vogatori, che sono stati tutti compagni di scuola alle elementari, si ritrovano periodicamente a cena al Notturno, un locale quasi sull'ultimo lembo di terra di Lio Piccolo. Per arrivarci si percorrono stradine strette e si costeggia la laguna dei fenicotteri rosa. Sembra la porta socchiusa sull'ultimo paradiso.
 

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