«Così a Mestre abbiamo colpito il clan nigeriano della droga»

Domenica 15 Luglio 2018 di Maurizio Dianese
«Così a Mestre abbiamo colpito il clan nigeriano della droga»
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MESTRE - «Sì, per la prima volta abbiamo utilizzato anche agenti sotto copertura, come si fa con le organizzazioni mafiose. Non era mai stato fatto prima per lo spaccio di strada».
Dunque Mestre con il blitz dell'altro giorno in via Piave inaugura un nuovo metodo di indagine, una sorta di Protocollo Mestre, messo a punto dal Servizio centrale operativo della polizia assieme alla Squadra Mobile di Venezia e alla Procura della repubblica di Venezia. A dirigere lo Sco è Alessandro Giuliano, per cinque anni a Venezia come dirigente della Squadra Mobile, poi a Milano, adesso al vertice del reparto più prestigioso della polizia, quello che si occupa dei traffici internazionali di stupefacenti e delle organizzazioni criminali di tipo mafioso. Giuliano ha deciso che a Mestre bisognava affrontare l'emergenza in modo nuovo.
 
«Eravamo di fronte ad una emergenza. Era un vero bollettino di guerra. Abbiamo iniziato a lavorare che i decessi erano due e siamo arrivati in un anno a quota 19 tra morti e tossicomani salvati in extremis. Una strage. È per questo che abbiamo deciso di adottare una strategia investigativa molto simile a quella che utilizziamo per combattere le mafie. Quindi abbiamo affiancato agli indispensabili metodi tradizionali nei quali la Squadra Mobile di Venezia, e in primis gli agenti dell'antidroga sono maestri, metodi derivati dalla nostra esperienza. E quindi abbiamo utilizzato gli agenti infiltrati».
Non è un film, ma ci assomiglia molto. Gli uomini dello Sco, fingendosi giovani tossicomani, sono andati a comperare la droga in via Monte San Michele, riuscendo in questo modo a penetrare nell'organizzazione, a conoscere i nomi e i ruoli, ricostruendo i passaggi della droga e filmando, assieme ai colleghi della Mobile veneziana, tutto quello che succedeva. E inanellando prove su prove contro la banda dello spaccio. 
«Proprio così».
Ed è stata la prima volta in Italia?
«Per lo spaccio da strada sì. Teniamo presente che la normativa sugli agenti infiltrati è molto precisa e permette ad esempio l'acquisto di droga, con arresto differito nel tempo, solo previo accordo con la magistratura. E devo dire che la Procura di Venezia ci ha dato il massimo supporto. È stata parte attiva dell'inchiesta. E dunque è grazie anche alla Procura veneziana se siamo riusciti a fare bene il nostro lavoro e ad azzerare lo spaccio in quel triangolo della morte che ruotava attorno alla stazione ferroviaria, via Monte San Michele e via Piave. Abbiamo arrestato 30 persone sulle 41 che avevamo individuato e già questo è un successo, ma siamo anche riusciti a ricostruire l'organigramma della banda di nigeriani. Partendo dallo spaccio in strada siamo saliti di livello, prima ai luogotenenti, poi siamo saliti ancora fino ad arrivare al capo. E abbiamo pure individuato il sistema di riciclaggio».
Ne avete presi 30 su 41. Ma perchè il blitz è stato fatto alle 3 del pomeriggio?
«Questa è stata una grande intuizione di Stefano Signoretti, il dirigente della Mobile veneziana. Noi poliziotti, si sa, mentalmente siamo abituati ad operare all'alba, invece Signoretti ha deciso di sigillare ermeticamente il quartiere alle 3 del pomeriggio. E così li abbiamo presi tutti».
A parte il capo, Ken Ighodaro. Aveva mangiato la foglia? 
«Ne dubito. Se avessero saputo qualcosa, sarebbero spariti tutti. No, è che uno come Ken ha una mobilità incredibile, in Italia e all'estero, proprio per il mestiere che fa».
Il protocollo Mestre è dunque fatto di telecamere, investigazioni sul campo, studio del territorio, contatto con i tossicomani e, in più, agenti sotto copertura. Questo protocollo vi ha permesso di andare oltre i soliti arresti per spaccio.
«Se avessimo fatto un blitz normale, dopo due giorni sarebbero stati tutti fuori di nuovo dal momento che nessuno di loro detiene più di una dose. E quindi sulla modica quantità ovviamente al massimo fanno una notte dentro. Invece così abbiamo raccolto le prove, per ognuno di loro, di centinaia di cessioni».
E quindi non solo non è più modica quantità...
«Ma è anche associazione a delinquere finalizzata allo spaccio. E in questo caso le pene sono molto pesanti».
Quindi non solo avete azzerato lo spaccio in strada, ma li porterete a processo con una raffica tale di accuse che faranno fatica a rivedere molto presto la luce del sole senza sbarre.
«Bè, ci sono prove tali da inchiodare ognuno di loro alle proprie responsabilità. Abbiamo registrato centinaia di cessioni di droga e decine di episodi violenti. In tutto abbiamo accumulato 300 capi di imputazione e alcuni di loro devono rispondere di almeno cinque morti. Le prove sono solide».
I nigeriani utilizzano una modalità completamente nuova di spaccio. Nel senso che sono organizzati come una azienda. C'è il capo, l'amministratore delegato, chiamiamolo così, che si procura la droga, tiene i contatti internazionali e coordina la rete di luogotenenti che a loro volta controllano i pusher di strada. Tutta questa gente fa di mestiere lo spacciatore. Nel senso che per loro è un lavoro e nessuno di loro è un tossicomane, mentre da sempre il pusher è contemporaneamente un consumatore. Questa invece è una impresa. Anche se criminale. Ma è solo questa banda di Mestre che lavora in questo modo?
«No, i nigeriani operano così anche in altre città. E infatti crediamo che esista anche una sorta di federazione della bande nigeriane».
Significa che ognuna è autonoma, ma se serve...
«Potrebbe appoggiarsi alla federazione. Ci stiamo lavorando».
Da quanto tempo stavate lavorando su Mestre?
«Praticamente un anno. Perché in queste indagini è molto difficile acquisire le prove e ci vuol tempo. Una quindicina di poliziotti, uno più bravo dell'altro, ci hanno lavorato per un anno intero, perdendo gli occhi davanti alle registrazioni delle telecamere e consumando le scarpe in strada. Questa è una indagine che ha messo in campo tante competenze di tanti bravissimi poliziotti».
Un gran lavoro, ma adesso?
«Il procuratore capo di Venezia, Bruno Cherchi, l'ha detto molto chiaramente e io non posso che ripetere le sue parole: adesso bisogna fare il resto e cioè affrontare il problema con la prevenzione, la cultura, l'educazione. La repressione è indispensabile, ma non basta e, del resto, a Venezia lo abbiamo sperimentato per decenni. Il Comune è sempre stato all'avanguardia nell'intervento sul campo e dunque quella è la strada giusta. Anche in questo caso noi abbiamo fatto parte del lavoro, importante, certo, ma non definitivo. I consumatori continueranno a chiedere droga, purtroppo, e qualcuno continuerà a fornirgliela. Quindi il nostro intervento ha bisogno di essere completato e in questo vuoto che abbiamo creato penso che il Comune saprà inserirsi al meglio per ottenere risultati durevoli nel tempo».
Maurizio Dianese 
Ultimo aggiornamento: 13:46 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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