Alberto Mondi, il miranese che in Corea è diventato una celebrità: «Il Covid? Qui hanno già vinto»

Mercoledì 22 Aprile 2020 di Marco Bampa
Alberto Mondi, il miranese che in Corea è diventato una celebrità: «Il Covid? Qui hanno già vinto»
MIRANO Paolo Rossi? «E chi è?» Pavarotti? «Prego?» Alberto Mondi? «Ah sì, la star della tv, lo conosciamo bene». Se vai in Corea del Sud e domandi in giro qual è l'italiano più famoso, la risposta è univoca. E tutti ti diranno che è lui, Alberto Mondi, 36enne nato a Mirano, in tasca una laurea in cinese a Ca' Foscari, sbarcato 13 anni fa a Seul, dove in poco tempo è diventato un'autentica celebrità. Con tanto di fan che gli chiedono autografi e legioni di followers che ne seguono le gesta: oltre 300mila su Instagram e 19mila su Twitter. Potenza della tv: da anni partecipa ad un fortunato programma di intrattenimento (Non summit, che in lingua coreana suona come una specie di gioco di parole), che gli ha spalancato definitivamente le porte del mondo televisivo. Al punto da lasciare il lavoro in azienda (aveva iniziato alla Peroni per poi passare alla Fiat Chrysler) per dedicarsi totalmente agli show tv per il canale JTBC, il principale network coreano.

Da anni è anche vicepresidente della Camera di Commercio italiano a Seul e ha così vissuto in prima persona l'arrivo del Covid 19 in quel paese, diventato un autentico modello di riferimento per la straordinaria capacita di limitarne la diffusione. Poche cifre per capire: lì vivono 51 milioni di persone e ad oggi si sono registrati 10.674 contagi e 229 vittime. In Italia, 60 milioni di abitanti, 178.972 casi e 23.660 deceduti. Una specie di miracolo, con basi però molto umane. «In Corea è stata fondamentale l'esperienza della Mers nel 2015 - racconta Alberto Mondi, tra una pausa e l'altra della registrazione di un programma - che aveva provocato una quarantina di morti, ma aveva soprattutto evidenziato la mancanza di un piano per affrontare le pandemie. Piano che è stato subito messo a punto nei dettagli con al centro l'uso massiccio dei tamponi, con un decreto che ha introdotto temporaneamente una limitazione al diritto alla riservatezza in situazioni di emergenza, in modo da individuare gli spostamenti dei contagiati e segnalare gli ospedali dove si erano registrati casi. Inoltre alle esercitazioni di antiterrorismo hanno aggiunto quella antibatterica, l'ultima è stata effettuata proprio a novembre scorso».

Insomma, la Corea è arrivata più pronta di altri paesi (Italia inclusa) all'arrivo del Covid: «Decisamente sì. Il 19 gennaio c'è stato il primo caso di positività. Subito il governo ha contattato le industrie locali per chiedere di produrre kit per i tamponi, tanto che in due settimane ne hanno fatti 200mila. Così hanno bloccato il problema sul nascere».
E per i tracciamenti come funziona? «Tramite il gps, i pagamenti con la carta di credito o le telecamere di sorveglianza vengono rintracciati gli spostamenti di ogni persona contagiata e vengono sottoposte a tampone e quarantena tutti coloro che sono venuti a contatto con il positivo. Inoltre vengono fatti chiudere per 24 ore e sanificare tutti i luoghi pubblici dove è stata. A tutti viene mandato un messaggio con un link, dove volendo si possono vedere gli spostamenti della persona contagiata (la cui identità resta anonima) e i luoghi che ha frequentato, così uno si regola di conseguenza». Qui in Italia si parla di Fase 2. Ma in Corea no perché non c'è mai stata la Fase 1, quella del lockdown: è così? «Hanno chiuso solo le scuole e i posti di possibile assembramento, tipo i luoghi di culto, i teatri di musical, i palasport e gli stadi, ma il resto è tutto aperto: aziende, negozi, centri commerciali».

LE PRECAUZIONI
Tutto aperto senza che il governo abbia imposto alcuna precauzione? «Quando è arrivato il virus la gente era già preparata ed ha cominciato subito, di suo, a non uscire di casa e ad adottarle spontaneamente. All'ingresso dei negozi ti misurano subito la febbre, entri solo con la mascherina e devi disinfettarti le mani. Io devo farlo anche quando vado in palestra». In tutto questo nei giorni scorsi in Corea si è anche votato per rileggere il presidente: come si è riusciti a mandare alle urne 45 milioni di persone senza rischi? «Mascherina, distanza di due metri e guanti forniti all'entrata dei seggi. Più due giorni di voto online».

Personalmente hai avuto riflessi sulla tua attività professionale? «Per fortuna sono sempre riuscito a lavorare in tv, i programmi col pubblico li facciamo con le persone collegate da casa. Purtroppo a febbraio ho dovuto rinunciare a far venire qui un gruppo di studenti della scuola media di Mirano, quella che ho frequentato da ragazzo, perché la Corea non era percepito come un posto sicuro. L'emergenza in Italia non c'era ancora».

A Mirano vivono ancora i tuoi genitori: preoccupato per loro? «No, perché conosco come lavora bene la sanità nel Veneto ed i miei hanno sempre adottato comportamenti prudenti. Certo mi dispiace sapere che sono morte così tante persone per il Covid». Un consiglio che ti sentiresti di dare, vista l'esperienza in Corea? «Non mollare con le misure di prevenzione, perché anche qui i medici si aspettano un ritorno del virus in autunno. E tornare a investire in educazione, ricerca e sviluppo, come hanno fatto qui, spingendo soprattutto sul digitale. Ormai siamo nell'era del Phono Sapiens, cioè il sapere diffuso grazie alla tecnologia tramite smartphone e tablet, che qui ti consentono tutto, da dove trovare la mascherina a dove ordinare la spesa o la cena. In Italia siamo rimasti molto indietro in questi settori. E davanti ad un'emergenza come questa sono emerse tutte le nostre difficoltà. Se siamo il Paese di Leonardo, Botticelli e Bernini dobbiamo continuare a dimostrarlo. Dal Covid purtroppo l'Italia ha subìto anche un grave danno di immagine».
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