Udinese, intervista al presidente Pozzo (al comando dal 1986): «Un miracolo di gol e buona gestione»

Lunedì 22 Novembre 2021 di Edoardo Pittalis
Udinese, intervista al presidente Pozzo

Il paròn Gianpaolo Pozzo si prepara a festeggiare il 30 novembre i 125 della squadra bianconera: simbolo di tenacia friulana, ambasciatrice degli emigrati in tutto il mondo. «Siamo davanti a qualcosa di grande. Non è piovuto dal cielo».


«Cos'è l'Udinese? Per noi friulani puri è il nostro esercito, un esercito che non spara fucilate, ma pallonate in porta.

A volte non trova la porta! È un esercito che va nel mondo perché questa è una terra con tanti emigrati: fino all'altro giorno era di contadini, quando non c'era da mangiare si emigrava. Abbiamo fogolar in ogni continente, tanti che ci seguono. Per me c'è anche questo tipo di affetto per la squadra».


Gianpaolo Pozzo, 80 anni, è dal 1986 il presidente dell'Udinese calcio, il più longevo della categoria: «E conto di non mollare: siccome io non corro e quando gli altri giocano resto seduto, non mi affatico». Lo chiamano Paròn che non vuol dire padrone, ma capofamiglia. Da 27 anni di fila i bianconeri sono in serie A, cosa che nel frattempo è riuscita soltanto alle milanesi e alle romane. La società il 30 novembre compie 125 anni, dopo il Genoa è la squadra più antica. Colori bianco e nero, come lo stemma della città. Forse avrebbe anche il suo scudetto perché gli udinesi avevano vinto quello che era il primo torneo di calcio per il Campione d'Italia, disputato a Treviso. Ma nessuno si era curato di stendere gli atti ufficiali e il nostro, si sa, è il paese della burocrazia, senza timbro niente titolo. La stessa burocrazia che frena i progressi dello stadio, la Dacia Arena? «Non sono i mattoni che mancano, ma la burocrazia che ci impedisce di concludere un progetto che sarebbe una cosa meravigliosa. Qui ha giocato anche la Nazionale. C'è un'area di 20.000 metri quadrati da fare, il progetto è pronto, le autorizzazioni non ancora! Non si tratta di un centro commerciale, ma di servizi. Ci sono già operativi gli uffici del Coni. Alla Dacia Arena abbiamo anche fatto l'hub vaccinale».


Questa sera, intanto, squadra a Torino per la partita di campionato contro i granata. Poi il via ai festeggiamenti ai quali parteciperanno i vertici della Federazione e della Lega e molti ex della squadra.
«Siamo davanti a qualcosa di grande. Non parlerei di un miracolo, non si tratta di qualcosa caduto dal cielo, ma di un prodotto assicurato da una gestione oculata».
Nel suo studio, accanto ai trofei e alle foto, Pozzo conserva una lettera firmata dal Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter. Scritta all'industriale, non al tifoso, con i complimenti per la qualità e l'attenzione ai particolari degli strumenti prodotti dalla sua fabbrica. Che è anche la filosofia del paròn.


Ma dove vengono i Pozzo del pallone?
«Vengo da una famiglia di piccoli imprenditori udinesi. Ha incominciato mio nonno che nel 1910 ha aperto una piccola fabbrica per produrre utensili per segare il legno e lavorarlo. Mio padre Diego ha dato l'impulso, aveva imparato il disegno meccanico alle scuole serali e aveva capito che era il momento giusto perché nel Friuli stava crescendo l'industria del mobile e soprattutto quella della sedia. Abbiamo aperto officine a Feletto, Fagagna, Colloredo e Martignacco. L'azienda aveva un nome impegnativo, almeno a vederlo: Freud, che stava per Frese Udinesi, ma molti continuavano a leggerlo come il nome del genio della psicoanalisi. Qualcosa a che vedere col grande Sigmund forse nei Pozzo c'era davvero! Quando siamo entrati noi tre fratelli la crescita ci ha portato ad avere anche 800 dipendenti solo in Friuli. Ci siamo estesi in Spagna, Usa, Inghilterra, siamo stati tra i primissimi in Cina. Poi nel 2008 ho ceduto a un grande gruppo, la Bosh, con un solo impegno: conservare tutti i posti di lavoro in Friuli».


Da Freud al campo di calcio: roba da lettino dello psicoanalista?
«No, sono sempre stato un grande tifoso dell'Udinese, anche se quando ero bambino la squadra spesso navigava in categorie inferiori. Però ci sono stati dei lampi di grandezza negli Anni Cinquanta, c'ero tra chi applaudiva Raggio di Luna Selmosson al vecchio campo Moretti. E mio fratello era compagno di classe di Beppe Virgili il centravanti della Fiorentina dello scudetto e della Nazionale. Lo chiamavano Pecos Bill. Io al pallone davo calci come tutti i ragazzi della mia età, ma non avevo la vocazione. Dopo l'arrivo di Sanson e di Mazza, negli Anni 80 la squadra è arrivata a livelli importanti, c'era Zico, da lì il mio tifo è diventato passione vera e grande. Non avevo fatto i conti con quella parte della mia anima friulana».


Lei è entrato nel calcio 35 anni fa, prima di Berlusconi e Moratti.
«Erano altri tempi, con i presidenti come Berlusconi e Moratti in Lega e fuori i rapporti sono sempre stati cordiali. Mi ricordo che la prima partita da presidente l'abbiamo giocata contro la Juventus, mi è venuto incontro per farmi gli auguri Giampiero Boniperti che stringendomi la mano ha detto: Ti sei preso una bella gatta da pelare. Abbiamo perso con un gol di Vignola viziato da un netto fuorigioco. Da quel momento ho incominciato a pensare a qualcosa che poi è diventato il Var».


Quali sono stati i momenti più difficili?
«Siamo in provincia, abbiamo sempre dovuto mangiare pane duro. Quando sono arrivato ho preso l'Udinese in serie A, dopo pochi mesi emerge un vecchio scandalo che ho ereditato senza entrarci niente. Nove punti di penalizzazione ci hanno dato, praticamente eravamo spacciati. Siamo scivolati in B, ma non è stata una resa».


E i momenti più belli?
«Quando abbiamo potuto accedere all'Europa e devo dire che lì ci siamo anche divertiti. La nostra ambizione, o presunzione, è quella di insistere per tornare in Europa. Partecipiamo con un piano e con risorse che prevedono dal decimo posto in su, tutto quello che si fa di meno non va bene. Bisogna sempre andare avanti facendo bene i conti. La nostra missione è quella di cercare e prendere giocatori giovani e talentuosi e di valorizzarli. Un giocatore del quale si sente già parlare non è per noi perché ha dei costi esagerati».


Puntate sui giovani da mettere sul mercato: sempre così?
«No, abbiamo anche un esempio di grande giocatore che è rimasto. A Totò Di Natale faremo una statua. Era capocannoniere, chiamato dalla Juventus ha risposto che voleva chiudere la carriera a Udine. Ho avuto tanti bravi campioni nella mia Udinese in questi anni. Dagli argentini Sensini e Balbo al tedesco Bierhoff che è stato un esempio incredibile: l'abbiamo preso dall'Ascoli che era sceso in C, ha fatto dei campionati strepitosi. Poi Sanchez, Amoroso, Handanovic Da anni della parte tecnica si occupa mio figlio Gino, si basa su una struttura di osservatori che è una tradizione della società. Negli anni '90 abbiamo fatto una cosa copiata poi da tutti: una sala video collegata in diretta con decine di campionati in tutto il mondo alla ricerca di talenti. Quanto agli allenatori, mi hanno detto che ne ho cambiato troppi: quelli che ho cambiato forse ho sbagliato a prenderli, ma non a mandarli via».


Lei ha investito anche in squadre all'estero?
«Sono sempre collegati alle nostre attività industriali e fanno sempre parte della nostra passione. In Spagna abbiamo rilevato il Granada che da 32 anni non era nella massima serie e ce lo abbiamo tenuto per 10 anni consecutivi prima di cederlo. Il Watford veniva da anni di B, il presidente era Elton John che si è stufato di cantare per la squadra e ha mollato. Lo abbiamo portato in Premier e c'è rimasto».


E come è cambiato il calcio a Nordest, a incominciare dalla vicenda Chievo?
«Per dire la verità Campedelli aveva già fatto il miracolo: da una squadra di quartiere era arrivato alla serie A e c'è rimasto per molti anni. Probabilmente i miracoli non si ripetono e succede anche questo nel calcio. Nel Nordest molte società sono fallite un paio di volte ricominciando da serie inferiori, spero in un futuro in cui ritornino in A anche Vicenza, Padova e la Triestina che ci manca».

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