«La mia vita? Un grande salto nel vuoto»: Marco, dalla laurea al rugby di Serie A fino alle vette delle Dolomiti

Venerdì 9 Aprile 2021 di Vittorio Pierobon
«La mia vita? Un grande salto nel vuoto»: Marco, dalla laurea al rugby di Serie A fino alle vette delle Dolomiti

Sempre più giù, nel vuoto. Lui si getta da qualsiasi altitudine, che siano i 4mila metri delle Grandes Jorasses nel massiccio del Monte Bianco, o da una fettuccia tesa tra due mongolfiere ad oltre mille metri di altezza. Scala, sale e salta. Non è una sfida, anzi ci tiene a chiarire che il concetto di sfida non gli appartiene. Il suo è un inno alla vita. «La natura è al centro di tutto. Non voglio dimostrare qualcosa a qualcuno». Avventure curate nei minimi dettagli, alla ricerca di una linea ideale di salita e di discesa. «Quando mi libro nell'aria, divento aria io stesso e mi allontano dalla condizione terrena di noi umani, costretti dalla forza di gravità a restare con i piedi per terra». Marco Milanese è un ragazzo normale, non ha nulla del superman, anche se i muscoli non sono certo quelli di un impiegato. Laureato a Padova in Scienze agrarie, è nato a Remanzacco (Udine) nel 1987, di professione è guida alpina. Un passato da buon rugbista a livello di serie A, ma non un campione. Vive a Udine, ma è più facile trovarlo sulle Dolomiti tra Veneto e Friuli, impegnato in qualche ascensione. È uno degli alpinisti italiani più completi della nuova generazione.


LA PASSIONE


«Gente che negli ultimi anni ha spinto avanti i limiti del possibile in montagna in maniera esplosiva», commenta ammirato Mauro Corona nella prefazione di Volare le montagne, Ediciclo editore, il libro nel quale Milanese racconta la sua filosofia di vita.

Lui è uno specialista delle prove estreme. «Mio papà, fin da piccolo mi ha fatto amare le montagne e mi ha insegnato ad arrampicare. Io mi sono specializzato nelle discese. Preferisco farle alla mia maniera». Parla con naturalezza, come se stesse raccontando di una scampagnata. La sua maniera di scendere è il salto nel vuoto. Il 17 agosto del 2018 ha scalato le Tre Cime di Lavaredo in fulminea successione: la Piccola, la Cima Ovest e la Grande. Arrivava in vetta e si gettava giù con il paracadute. Il tutto in solitaria in appena 5 ore e 40 minuti. Senza l'uso di corde e chiodi. Mai nessuno prima di lui l'aveva fatto. Non sembrerebbe difficile a leggere la sua descrizione: «Un bel respiro, svuoto la mente. Vivo il momento. Tre. Due. Uno. Mi lancio. L'aria scorre veloce, molto veloce. Sento la pressione sul viso, il fischio nelle orecchie. La mente sembra congelata, poi entra in funzione il pilota automatico:  sa cosa devo fare. Sto precipitando nel vuoto e devo eseguire una sola, fondamentale azione: aprire il paracadute al momento giusto».


LA NUOVA DISCIPLINA


Questa disciplina si chiama Base jumping e consiste nel gettarsi nel vuoto da rilievi naturali, edifici o ponti e atterrare con il paracadute. Precipitare nel vuoto. Quante volte lo ha fatto Milanese. Centinaia, migliaia. In tutti i modi. In Val Scura, sopra Corvara in Val Badia, si è gettato con la tuta alare in caduta libera in un canalone largo tra i 10 e i 30 metri. I primi due secondi sono pazzeschi, come un sasso che piomba nel vuoto sfiorando le rocce, poi la tuta si gonfia ed è possibile governarla. Velocità di crociera 200 chilometri orari «Perché più si va veloci e meglio la si manovra. Riesco a pilotare la tuta in modo millimetrico: le spalle forniscono la direzione, le gambe la velocità, il bacino il livello di galleggiamento. In realtà, è tutto il corpo assieme che pilota».


IN EQUILIBRIO


Ma nel vuoto, oltre che precipitare, è bello anche restare in equilibrio, proprio per evitare di precipitare. Si chiama slackline, camminare sulla corda. La versione estrema, quella che preferisce Milanese, è l'highline, linea alta. Centinaia di metri sospesi nel vuoto. Marco ha avuto come maestro Armin Holzer, uno dei grandissimi interpreti di questa disciplina estrema, purtroppo tragicamente morto durante un volo con una vela da speedfly. Si tende una fune tra due pinnacoli e si va da una parte all'altra, sospesi a centinaia di metri. Meglio se a piedi scalzi, c'è più aderenza. Si cade spesso, però si resta aggrappati ad una corda di sicurezza. Scossoni tremendi. Si risale e si ricomincia. Non chiamateli acrobati, il circo è un'altra cosa, con tutto il rispetto. Questi sono uomini che vivono un rapporto simbiotico con la natura, al punto da estremizzarlo. Un po' scoiattoli e un po' aquile.


NEL PALLONE


E se non bastano le cime rocciose per fissare la fune, ci sono le mongolfiere. Milanese ha provato anche questa versione ancor più estrema, perché al brivido del vuoto, si aggiunge l'instabilità dei due palloni volanti a cui è agganciata la fune. È come camminare nel cielo, sopra o dentro le nuvole. Pazzesco, probabilmente anche meraviglioso. Non c'è corda di salvataggio, si indossa un paracadute. In caso di caduta, o si afferra al volo la fune su cui si cammina, oppure bisogna aprire il paracadute. «Salgo sulla fettuccia e mi accovaccio. Tremo - racconta Marco nel libro - Stare seduto lassù, su un filo sospeso tra i due palloni aerostatici è terrificante. La linea è molto rigida e corta, ogni movimento delle ceste si trasmette al filo. Cado ripetutamente, ma riesco sempre a prendere la fettuccia al volo, così posso riprovarci. Poi accade tutto velocemente. D'un tratto mi sollevo in piedi e ogni cosa sparisce. Non esistono né fatica, né dolore, né freddo. Esiste solo l'istinto primordiale. Mi dice: Cammina e sopravvivrai».  Sopravvivere. È brutto chiederlo, ma è la domanda istintiva che ci si pone. Quanta paura c'è di morire? «Ho perso tanti amici. Persone che sciavano, scalavano, volavano o saltavano. Tutti rincorrevano un sogno. Come me. La morte arriva per tutti, e potrebbe arrivare per moltissime ragioni diverse che possono anche non dipendere da noi. L'idea di morire senza aver vissuto come volevo, mi attanaglia. Per quanto mi riguarda, la vita è semplicemente una questione di qualità, non di quantità. Come viviamo le nostre vite è molto più importante di come moriamo». Le imprese che compiono Marco e quelli della sua tribù come li chiama lui, sembrano oltre il limite del possibile, però lui non è d'accordo: «Chiunque ce la può fare. Servono tanta passione e allenamento. Non solo allenamento fisico, ma soprattutto mentale. La forza la troviamo nella nostra volontà. Io sono molto fatalista: l'importante è gestire la vita con coscienza e conoscenza». E gli altri? Cosa prova chi vive accanto ad un uomo, che si alza al mattino e va a buttarsi nel vuoto? Risponde sorridendo Elisa, la compagna di Marco: «Io preferisco stare con i piedi per terra, ma quando lo vedo volare è un'emozione anche per me. E quando atterra e lo guardo negli occhi, capisco tutto. Nel suo sguardo c'è la vita, la gioia di vivere. Basta leggere nei suoi occhi, ci sono tutte le risposte».


(vittorio.pierobon@libero.it)

Ultimo aggiornamento: 10 Aprile, 09:07 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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