Davide Maria Turoldo, prete e poeta friulano, profeta scomodo del Novecento

Mercoledì 7 Dicembre 2022 di Edoardo Pittalis
padre Davide Maria Turoldo

Il giorno dei funerali a Milano, davanti a una folla inattesa, il cardinale Carlo Maria Martini chiese pubblicamente scusa a nome della Chiesa a padre Davide Maria Turoldo per i torti subiti. «La Chiesa riconosce la profezia troppo tardi», aggiunse. L'uomo che era stato definito la coscienza inquietante volle essere sepolto a Fontanella di Sotto il Monte, il paese dove era nato Papa Giovanni: nella terra, sotto una croce di legno, in mezzo alla sua gente. Era una sera di febbraio di trent'anni fa. Il profeta coraggioso, il ribelle impetuoso come un fiume carsico, fedele a Dio e alla vocazione, contrario a ogni compromesso col potere, legatissimo alle sue origini, si era arreso alla malattia. Aveva contribuito al cambiamento del cattolicesimo della seconda metà del Novecento; e come filosofo, scrittore e poeta anche al rinnovamento culturale della società italiana. Un coraggio che gli era costato l'isolamento, la diffidenza, l'allontanamento e perfino una sorta di esilio che lo avevano portato in giro per il mondo. Non aveva mai dimenticato la sua terra friulana.


DIECI FRATELLI
Giuseppe Turoldo era nato nel novembre del 1916 a Coderno, frazione di Sedegliano, campagna friulana, nel pieno della Grande Guerra e non lontano dal fronte.

Dieci fratelli, famiglia poverissima; quando lui cresce i fratelli più grandi sono già emigrati per lavoro, di qualcuno non si avranno più notizie. Rosso di capelli, allampanato, ultimo figlio dell'ultima casa del paese. Un Friuli inimmaginabilmente povero. Gli altri lo deridono, lo chiamano polentone; c'era miseria nera, la polenta si cuoce solo per i bambini che devono crescere e per il capofamiglia che va a lavorare nei campi. Scriverà: «La polenta mi piaceva: era profumata e calda. Nel latte, poi, - quando c'era! o col formaggio sempre quando c'era! aveva un sapore di miele». Ha talento e siccome per far studiare un povero non c'è che il seminario, a 13 anni è nel collegio di Isola Vicentina dell'Ordine Servita. Gli danno il nome di Davide Maria e alla fine del 1938 pronuncia i voti solenni a Vicenza, poi va Venezia a studiare Teologia. Quando l'Italia è appena entrata in un'altra guerra mondiale, nel santuario di Monte Berico viene ordinato presbitero e assegnato al convento di Santa Maria dei Servi di San Carlo al Corso a Milano. Il cardinale Ildefonso Shuster lo incarica di tenere la predica domenicale in Duomo per un anno. Nell'Italia del Nord la guerra diventa anche guerra civile, Milano è al centro della violenza nazifascista e della Resistenza. Turoldo si schiera con gli antifascisti, diffonde in convento il giornale clandestino L'Uomo e racconta in versi la sua scelta: «E io con mani inchiodate/ all'uso delle armi;/ come te, o Cristo, solo,/ in faccia alla morte». Scrive pagine bellissime per ricordare la liberazione di Milano: «Credo di non aver mai vissuto come quel giorno il salmo dei deportati e degli oppressi: Quando il Signore le nostre catene strappò e infranse, fu come un sogno. Adesso nessuno ci guarderà più con diffidenza perché pur preti eravamo partigiani Avevamo il cuore ubriaco. Milano era una primavera, le case fiorivano, la gente era come se si fosse conosciuta da sempre Ecco soprattutto cosa ricordo: i colori della gioia». Turoldo, a guerra finita, si laurea alla Cattolica in filosofia con una tesi sulla fatica della ragione, Carlo Bo gli offre il ruolo di assistente universitario, lui rifiuta per dedicarsi alla nascita di un centro culturale.


ALLONTANATO
Dirà il grande critico che Turoldo aveva avuto in dono da Dio la fede e la poesia: «Dandogli la fede, gli ha imposto di cantarla tutti i giorni». Raccoglie fondi a sostegno del progetto di don Zeno Saltini che a Nomadelfia vuole riunire gli orfani di guerra «con la fraternità come unica legge». Ha occupato il campo di concentramento di Fossoli, presso Carpi, dove erano detenuti gli ebrei per Aushwitz e gli antifascisti. Incomincia a essere conosciuto anche dal grande pubblico, scrive versi che gli valgono premi importanti, pubblica nella collana Specchio della Mondadori diretta da Giuseppe Ungaretti.
Ma la presa di posizione di politici locali e di alcune autorità spingono la curia milanese ad allontanarlo, così nel 1953 padre Turoldo va per qualche anno in Baviera e in Austria. Rientra nel 1955 per andare a Firenze alla Santissima Annunziata e immergersi nel clima di rinnovamento della città del sindaco La Pira, si avvicina a don Lorenzo Milani il priore di Barbiana. Anche qui è scomodo e questa volta gli ordinano una lunga assenza in giro per il mondo. La strada del ritorno nel '61 ha il sapore di casa, lo assegnano al convento di Udine e lui porta con sé un progetto maturato all'estero tra i tanti emigrati friulani sparsi dal Canada al Brasile. Ovunque i friulani hanno cercato di ricreare la loro piccola patria, un Fogolar per conservare lingua e tradizioni. Tra gli emigrati padre Turoldo mette a punto l'idea del film Gli ultimi che gira con la regia di Vito Pandolfi, ispirato ai suoi ricordi: vuole nobilitare la povera vita rurale del Friuli e il dramma dell'emigrazione di un «popolo disperso, amico di tutti e, insieme, straniero ovunque». La gente rifiuta il film, lo ritiene quasi offensivo. Invece, è troppo vero, ma a nessuno piace sentirsi dire in faccia la verità; sentirsi raccontare, adesso che ha un certo benessere, che è stato tanto povero da dover abbandonare quella terra che considera sua madre. Nel 2002 l'editore Giovanni Santarossa pubblicherà in un cofanetto il film e i racconti Il mio vecchio Friuli. Anche l'esperienza udinese dura poco, nel '63 padre Turoldo è nel priorato di San'Egidio con la Casa di Emmaus, accoglienza senza distinzione di religione, che diventa un punto di riferimento internazionale, specie per i rifugiati dell'America Latina. Col tempo aumenta la sua fama di conferenziere, di predicatore, di esperto della Bibbia e delle Scritture, di poeta e di trascinante relatore: collabora a giornali, appare in tv, intraprende da iniziatore i viaggi della memoria nei campi di sterminio nazisti. Ritorna nel suo Friuli per il terremoto e lo fa con una voce di speranza, come scrive sul Gazzettino: «Il terremoto è venuto. E voi italiani non sapete nulla di ciò che abbiamo perduto Ebbene, ne rifaremo uno nuovo, domani. E gli emigranti continueranno a tornare E pure i morti di notte lavoreranno con silenziose cazzuole».
L'AMICIZIA CON MARTINI
Infine, il rientro a Milano col cardinale Martini che lo accoglie come una coscienza del Novecento. Scrive con forza: «Noi abbiamo fatto di Cristo una caramella così da sciogliersi in bocca. Prendi la tua croce: sarebbe ora che facessimo chiarezza mentale». Turoldo è consapevole di attraversare un tempo malato come dice una sua poesia: «Il tempo è malato/ i fanciulli non giocano più/ le ragazze non hanno / più occhi che splendono la sera./ E anche gli amori non si cantano più». In qualche modo, senza mai tradire la fedeltà alla sua fede, ha agito da coscienza civile almeno quanto aveva fatto seppure da posizioni differenti - un altro friulano, Pier Paolo Pasolini. Il suo tempo malato ricorda il tempo delle lucciole che non ci sono più. L'uomo combatte contro un tumore, ne parla sul Gazzettino: «La mia malattia è un'esperienza consapevole, giocata a carte scoperte. Alle pietose menzogne dei medici ho preferito la verità. In un primo momento è tremendo, crudele. Ma accettare il cancro è già metterlo a disagio, sfidarlo». Dice che per lui «la morte è sempre stata una fessura attraverso cui guardare i colori della vita». Se ne va l'ultimo uomo col cuore ubriaco, l'ultimo figlio della famiglia che abitava l'ultima casa del vecchio Friuli, oggi diventata museo. L'ultimo per il quale la polenta aveva sapore di miele. L'ultimo che dalla fessura della morte sapeva guardare anche i colori della gioia.

 

Ultimo aggiornamento: 8 Dicembre, 11:23 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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