Il giorno dei funerali a Milano, davanti a una folla inattesa, il cardinale Carlo Maria Martini chiese pubblicamente scusa a nome della Chiesa a padre Davide Maria Turoldo per i torti subiti. «La Chiesa riconosce la profezia troppo tardi», aggiunse. L'uomo che era stato definito la coscienza inquietante volle essere sepolto a Fontanella di Sotto il Monte, il paese dove era nato Papa Giovanni: nella terra, sotto una croce di legno, in mezzo alla sua gente. Era una sera di febbraio di trent'anni fa. Il profeta coraggioso, il ribelle impetuoso come un fiume carsico, fedele a Dio e alla vocazione, contrario a ogni compromesso col potere, legatissimo alle sue origini, si era arreso alla malattia. Aveva contribuito al cambiamento del cattolicesimo della seconda metà del Novecento; e come filosofo, scrittore e poeta anche al rinnovamento culturale della società italiana. Un coraggio che gli era costato l'isolamento, la diffidenza, l'allontanamento e perfino una sorta di esilio che lo avevano portato in giro per il mondo. Non aveva mai dimenticato la sua terra friulana.
DIECI FRATELLI
Giuseppe Turoldo era nato nel novembre del 1916 a Coderno, frazione di Sedegliano, campagna friulana, nel pieno della Grande Guerra e non lontano dal fronte.
ALLONTANATO
Dirà il grande critico che Turoldo aveva avuto in dono da Dio la fede e la poesia: «Dandogli la fede, gli ha imposto di cantarla tutti i giorni». Raccoglie fondi a sostegno del progetto di don Zeno Saltini che a Nomadelfia vuole riunire gli orfani di guerra «con la fraternità come unica legge». Ha occupato il campo di concentramento di Fossoli, presso Carpi, dove erano detenuti gli ebrei per Aushwitz e gli antifascisti. Incomincia a essere conosciuto anche dal grande pubblico, scrive versi che gli valgono premi importanti, pubblica nella collana Specchio della Mondadori diretta da Giuseppe Ungaretti.
Ma la presa di posizione di politici locali e di alcune autorità spingono la curia milanese ad allontanarlo, così nel 1953 padre Turoldo va per qualche anno in Baviera e in Austria. Rientra nel 1955 per andare a Firenze alla Santissima Annunziata e immergersi nel clima di rinnovamento della città del sindaco La Pira, si avvicina a don Lorenzo Milani il priore di Barbiana. Anche qui è scomodo e questa volta gli ordinano una lunga assenza in giro per il mondo. La strada del ritorno nel '61 ha il sapore di casa, lo assegnano al convento di Udine e lui porta con sé un progetto maturato all'estero tra i tanti emigrati friulani sparsi dal Canada al Brasile. Ovunque i friulani hanno cercato di ricreare la loro piccola patria, un Fogolar per conservare lingua e tradizioni. Tra gli emigrati padre Turoldo mette a punto l'idea del film Gli ultimi che gira con la regia di Vito Pandolfi, ispirato ai suoi ricordi: vuole nobilitare la povera vita rurale del Friuli e il dramma dell'emigrazione di un «popolo disperso, amico di tutti e, insieme, straniero ovunque». La gente rifiuta il film, lo ritiene quasi offensivo. Invece, è troppo vero, ma a nessuno piace sentirsi dire in faccia la verità; sentirsi raccontare, adesso che ha un certo benessere, che è stato tanto povero da dover abbandonare quella terra che considera sua madre. Nel 2002 l'editore Giovanni Santarossa pubblicherà in un cofanetto il film e i racconti Il mio vecchio Friuli. Anche l'esperienza udinese dura poco, nel '63 padre Turoldo è nel priorato di San'Egidio con la Casa di Emmaus, accoglienza senza distinzione di religione, che diventa un punto di riferimento internazionale, specie per i rifugiati dell'America Latina. Col tempo aumenta la sua fama di conferenziere, di predicatore, di esperto della Bibbia e delle Scritture, di poeta e di trascinante relatore: collabora a giornali, appare in tv, intraprende da iniziatore i viaggi della memoria nei campi di sterminio nazisti. Ritorna nel suo Friuli per il terremoto e lo fa con una voce di speranza, come scrive sul Gazzettino: «Il terremoto è venuto. E voi italiani non sapete nulla di ciò che abbiamo perduto Ebbene, ne rifaremo uno nuovo, domani. E gli emigranti continueranno a tornare E pure i morti di notte lavoreranno con silenziose cazzuole».
L'AMICIZIA CON MARTINI
Infine, il rientro a Milano col cardinale Martini che lo accoglie come una coscienza del Novecento. Scrive con forza: «Noi abbiamo fatto di Cristo una caramella così da sciogliersi in bocca. Prendi la tua croce: sarebbe ora che facessimo chiarezza mentale». Turoldo è consapevole di attraversare un tempo malato come dice una sua poesia: «Il tempo è malato/ i fanciulli non giocano più/ le ragazze non hanno / più occhi che splendono la sera./ E anche gli amori non si cantano più». In qualche modo, senza mai tradire la fedeltà alla sua fede, ha agito da coscienza civile almeno quanto aveva fatto seppure da posizioni differenti - un altro friulano, Pier Paolo Pasolini. Il suo tempo malato ricorda il tempo delle lucciole che non ci sono più. L'uomo combatte contro un tumore, ne parla sul Gazzettino: «La mia malattia è un'esperienza consapevole, giocata a carte scoperte. Alle pietose menzogne dei medici ho preferito la verità. In un primo momento è tremendo, crudele. Ma accettare il cancro è già metterlo a disagio, sfidarlo». Dice che per lui «la morte è sempre stata una fessura attraverso cui guardare i colori della vita». Se ne va l'ultimo uomo col cuore ubriaco, l'ultimo figlio della famiglia che abitava l'ultima casa del vecchio Friuli, oggi diventata museo. L'ultimo per il quale la polenta aveva sapore di miele. L'ultimo che dalla fessura della morte sapeva guardare anche i colori della gioia.