Coronavirus. Medico in fuga dall'inferno dell'Etiopia: il viaggio di 120 ore e 30 minuti di Stefano per tornare in Friuli

Sabato 4 Aprile 2020 di Camilla De Mori
Coronavirus. Medico in fuga dall'inferno dell'Etiopia: il viaggio di 120 ore e 30 minuti di Stefano per tornare in Friuli
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Fuga in ambulanza per andare dall'inferno all'inferno. Un viaggio di «120 ore e trenta minuti», dall'inferno dell'Etiopia arroventata dalle tensioni politiche, con gli spari e gli arresti dentro l'ospedale di Wolisso, all'inferno surreale dell'Italia assediata dal virus con le stazioni svuotate e le corsie in cui soffrono e talvolta anche muoiono i malati di covid-19. Perché è lì, sempre in prima linea, che vuole andare il medico friulano Stefano Parlamento, quando sarà terminata la quarantena di due settimane e avrà recuperato il sonno e le energie spese per riportare a casa, sani e salvi, l'internista e la pediatra di Torino con il loro bimbo di un anno e mezzo e i quattro specializzandi del Wolisso project, una sorta di Erasmus delle nuove leve che proprio Parlamento ha contribuito a creare.

LA FUGA
Classe 1981, nato a Biella ma cresciuto a Udine, Parlamento è arrivato giovedì, verso le 13 a Trento, dopo un viaggio di 120 ore e 30 minuti, «dalla partenza dell'ambulanza da Wolisso». «Da quando abbiamo scoperto che non c'erano più voli per l'Italia, abbiamo affrettato il rientro, partendo per Addis Abeba, con i due medici, le tre specializzande, lo specializzando e il bimbo. Me li sono presi tutti sul groppone organizzando un convoglio con due macchine e davanti l'ambulanza con il piccolo. Non sapevamo cosa avremmo trovato per la strada. La situazione è in ebollizione in Etiopia, soprattutto nella parte occidentale dell'Oromia. Il grosso obiettivo era portare a casa il bimbo di un anno e mezzo, il nostro piccolo eroe di Torino. Ce l'abbiamo fatta», racconta Parlamento, vicedirettore dell'ospedale di Wolisso, dove era in missione da 9 mesi per conto del Cuamm e dove sarebbe dovuto restare fino a giugno. Ma poi la situazione è precipitata. A Wolisso, dove c'era già un'epidemia di morbillo, «abbiamo avuto una polmonite bilaterale interstiziale molto sospetta. La ragazza è sopravvissuta. Il campione è risultato negativo. Ma è bastato quel caso sospetto per creare nella comunità il panico. Ho sfruttato l'occasione per mettere in sicurezza l'ospedale. Ma c'era un rischio potenziale che non ho voluto far correre ai ragazzi e al bambino». Ed è scattata «l'evacuazione». «Abbiamo atteso il volo promesso dall'Ambasciata, ma poi visto che è slittata la partenza, il Cuamm ci ha trovato per il rotto della cuffia un aereo che ci ha riportato a casa. Era pieno, sembrava una fuga di massa». Poi, Malpensa e quindi in treno a Verona e Trento. «Arrivare a Francoforte e Malpensa e trovare tutto chiuso è stato surreale. Come tornare dall'inferno all'inferno. In stazione a Milano c'ero solo io. Anche i poliziotti stavano fuori».

TENSIONI
Di coronavirus, in Etiopia, «si contavano ufficialmente 29 casi quando sono partito. Sono arrivati dei ventilatori dalla Cina. Ma ci sono 4-5 terapie intensive in tutto per 115 milioni di abitanti». A Wolisso, nell'ospedale da 85mila accessi l'anno e 4.500 parti, 200 posti letto e un bacino di 1,2 milioni di persone, ha lasciato la situazione «in sicurezza, con la tenda pretriage, le mascherine, l'acqua e sapone ovunque, gli accessi solo con badge». D'altronde, quella, è «casa» sua, anche se in passato proprio lì ha rischiato di morire di morbillo e negli scorsi mesi proprio lì ha assistito ad arresti e spari. «Un giorno racconta hanno arrestato un chirurgo e un'ostetrica per un paziente morto un anno prima, senza nessuna responsabilità personale. Ma il medico era un attivista politico. Poi, è uscito su cauzione e grazie ad una distorsione sono riuscito a farlo ricoverare: è ancora fuori dal carcere. Ma tra la gente si è sparsa la voce che nell'ospedale dei bianchi si ammazzavano le persone e abbiamo fatto molta fatica per recuperare la fiducia. Ci sono state minacce. Una sera a gennaio una suora mi dice C'è un problema al cancello. Vado e mi trovo davanti una folla che assediava l'ospedale e una montagna umana di 80 persone arrampicata sul pick up della polizia che aveva a bordo una nostra guardia. Era successo che la guardia si era trovata di fronte un'Ape cross con 12 persone, aveva sparato in aria, il colpo aveva beccato il margine del cancello in ferro ed erano rimaste ferite sei persone, con un bimbo con trauma cranico severo e una ragazza gravissima. L'abbiamo salvata. La folla si è placata ma il clima è rimasto incandescente».

Nonostante tutto, «ho lasciato quel posto con la morte nel cuore. Per me abbandonare Wolisso, quasi scappando, adesso che c'è bisogno, è stato un dolore che non penso si rimarginerà». Avvisati i genitori, che vivono a Martignacco, la prima cosa che ha fatto al rientro in Italia, racconta, è stata «mangiare un panino con la mortadella e bere un bicchiere di Chianti nella casa rifugio». Il futuro? «Lo deciderò in queste due settimane di quarantena. Immagino che starò qui in Italia a dare una mano, in un centro per pazienti Covid-19. Dove lavorerò, non lo so. Ma se c'è bisogno, torno in trincea».
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