Donatella, dalle missioni Onu nel mondo in guerra al volontariato in Italia per l'epidemia

Venerdì 24 Aprile 2020 di Alessia Pilotto
Donatella Malfitano, operatrice Onu e volontaria per la Croce Rossa in Friuli

Era in Albania, per l’emergenza profughi del Kosovo; era a salvare gli animali dello zoo di Kabul, quando c’era la guerra in Afghanistan, ed era in Costa D’Avorio, quando è scoppiata la guerra civile. E poi Yemen, Pakistan, Papua Nuova Guinea.... Adesso che i problemi, anche se di altra portata, sono arrivati a “casa sua” a causa del coronavirus, è diventata volontaria della Croce Rossa per dare una mano anche in Friuli. Donatella Malfitano è originaria di Gonars, ma dagli anni ‘90 partecipa a missioni umanitarie (più di quaranta) in tutto il mondo, soprattutto con l’Onu.

MAI INATTIVA
«Quando è scoppiata la pandemia – racconta Donatella Malfitano - ero qui, in Italia, e mi sono trovata in questa situazione. È stata una cosa strana, per tutti, ma anche per me perché era la prima volta che mi trovavo in un simile frangente a casa mia. Mi sentivo fondamentalmente inutile: abituata a lavorare in situazioni d’emergenza fuori, mi sono trovata in Italia a non poter fare nulla. Quando c’è stato l’appello della Croce Rossa friulana che cercava volontari temporanei, mi sono proposta. Ho fatto il corso di formazione e adesso sono impegnata a fare gli screening, davanti alle fabbriche che ne fanno richiesta. Paura del contagio? No, se il covid-19 dovesse avvicinarmi troverebbe tanti di quegli anticorpi, con tutto quello che mi son presa nel mondo – dice con ironia - Comunque non ho paura, perché usiamo sempre i dispositivi di protezione individuale e il rischio esiste anche andando al supermercato. Più che altro – continua - il timore sarebbe nel caso dovessi passarlo alla mia famiglia».
IN GIRO PER IL MONDO
D’altronde, di esperienze pesanti, ne ha già vissute: «Ovviamente, quando siamo in missione teniamo sempre la guardia alta – spiega - ma un paio di volte in Costa D’Avorio, paese di cui mi sono comunque innamorata, ho rischiato la vita: la prima mi sono trovata in mezzo alla guerra civile che era appena scoppiata; la seconda quando la folla si è riversata su uno stradone e le persone sono salite sul cofano dell’auto e facevano il gesto di tagliare la gola. Per fortuna, in quelle situazioni riesco sempre a essere lucida».
I contesti in cui è abituata a lavorare sono di solito diversi: «La maggior parte del tempo – spiega - lavorando nel campo dell’assistenza tecnica-elettorale, vado soprattutto nei Paesi che escono da un conflitto e chiedono supporto all’Onu per creare una stabilità politica, quindi in Stati che escono da una guerra o in altri, più stabili, che hanno iniziano un processo di democratizzazione».
«NON È UNA GUERRA»
Conoscendo questi scenari, quindi, la narrazione che qui è stata fatta della pandemia l’ha infastidita: «Dicono che siamo in guerra, che c’è un nemico invisibile: non è vero, non lo siamo, la guerra è ben diversa, non facciamo questi paragoni. Quando la situazione dell’Italia, a causa dell’emergenza sanitaria, è finita nelle notizie internazionali, mi hanno chiamato amici e colleghi degli staff locali che lavorano in Paesi che hanno vivono situazioni di grandi difficoltà: dallo Yemen, dal Congo, dal Nepal... E mi scrivevano preoccupati per me e per la mia famiglia, dicendomi che pregavano per il nostro Paese. È una cosa che mi ha fatto molto piacere, sia a livello personale, sia perché c’è questa solidarietà da parte di chi vive esperienze molto peggiori. Però mi ha messo anche in difficoltà: mi sono ritrovata a rassicurare sulla mia situazione gente che vive sotto le bombe».
SITUAZIONE IN DIVENIRE
Una reazione esagerata, la nostra? «Sto ancora cercando di analizzare ciò che sta accadendo – risponde - Penso che questa emergenza abbia colto di sorpresa un po’ tutti: non siamo un Paese abituato a parlare di pandemia o di confinamento.

Non mi sento di giudicare la reazione: chi avrebbe saputo cosa era meglio fare in quel momento? Le somme si tireranno alla fine. Certo, la limitazione delle libertà non è vissuta bene da nessuno, però, avendo di fronte qualcosa di sconosciuto, è un piccolo sacrificio. Chiaro che l’impatto sul lavoro è pesante. Anche io non so come saranno le mie missioni future. Questa situazione ci mostra che non siamo invincibili. Una prima lezione, a cui spero che la gente pensi, è quella del nostro rapporto con la natura: se avessimo trattato meglio il pianeta, questi virus non sarebbero arrivati. Invece, è bastato un microorganismo per bloccarci tutti: è un monito della natura che cerca di rimetterci al nostro posto. Nei Paesi che chiamiamo del Sud del mondo sono più abituati a convivere, purtroppo, con situazioni anche peggiori: in Congo, ad esempio, c’è ancora un’epidemia di Ebola».

Ultimo aggiornamento: 20:53 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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