Solo in questo bar che ha 200 anni
potrete assaggiare il vino "Cividin"

Lunedì 15 Agosto 2016 di Paola Treppo
Elio e Raffaella

SAN PIETRO AL NATISONE (Udine) - Ha 15 abitanti stabili, il piccolo borgo di Vernassino, una frazione del comune di San Pietro al Natisone arrampicata sul monte Matajur, a quota 450 metri, nelle Valli della Slavia Friulana. Ma due secoli era un abitato popolato da 600 persone. Oggi, in questo angoletto di mondo rimasto fortemente ancorato alle tradizioni, e dove si parla non la lingua friulana ma il dialetto slavo arcaico, i versanti un tempo sempre sfalciati e coltivati sono avvolti dal bosco. Lungo la strada che si inerpica e che poi finisce, più in alto, nel borgo disabitato Podar, dove c’è solo una casa, si scorge una vecchia “insegna" del telefono, gialla, di quelle a rotella, ormai quasi introvabili. Accanto una vite e, a 4 passi, una porta. È un bar. Anche se non sembra. Perché non ci sono scritte né indicazioni. Ed è un bar che ha 200 anni, gestito ininterrottamente dalla stessa famiglia, i Blasutig, gente che non ha mai lasciato la sua terra.
 
Dietro al banco, rimasto intatto dopo l’ultima ristrutturazione del 1960, c’è Raffaella, 50 anni, occhi azzurrissimi, che ti versa un vino, il “Cividino” o il "Cividin", fatto in casa, il cui vitigno è praticamente scomparso, quello "vero", autoctono, delle Valli; è un vino acidulo, bianco, dissetante, usato dai contadini mischiato all'acqua, quando andavano a lavorare sotto il sole; le poche piante "originali" che sopravvivono da secoli crescono solo in questo minuscolo borgo e le cura il papà di Raffaella, il signor Elio, 89 anni: «Cosa faccio per star così bene? Lavoro eh, faccio legna e l’orto. Perché solo se si lavora si sta bene. E poi mia figlia ha il bar, che prima gestivo io, con mia moglie, Rina. Ma cosa vuole.. Teniamo duro fin che si può, perché clienti ce n’è pochi e le tasse son tante». Lui, l’unico produttore di “Cividino” del mondo, è bello sveglio e racconta la storia di questo paese, che è da film.
 
«Ad aprire il bar erano stati i miei nonni che poi lo hanno lasciato ai miei genitori, Emilio e Amalia. Erano tempi che si lavorava bene e la gente aveva voglia di giocare a carte. Si beveva vino, una birra, poca grappa per la verità. Qui c’erano la bottega per comprare da mangiare, la scuola, altri cinque bar. Poi, quando non c’era lavoro per i giovani sono andati tutti via, e le macchinette per far lo scontrino hanno fatto chiudere tutte le osterie. Prima o poi dovremo farlo anche noi». Ma Raffaella, che abita lì, a Vernassino, fa "no" con la testa. Lei ama stare dietro al banco, e i tre clienti della zona che si stanno bevendo un bicchiere le vogliono bene e fanno il tifo per lei. La comunità, del resto, se pure veramente piccola, è molto unita: ha organizzato fin una festa per raccogliere fondi e sistemare la chiesa, che era rovinata. Nel bar bicentenario ci sono le vecchie foto di famiglia, in bianco e nero, la cassetta di legno con le carte da gioco, una vetrina verniciata di bianco, con servizi di bicchieri tramandati da padre in figlio. 
 
Il bar di Costa, trasformato in monastero, poi il nulla 
Più su, oltre Vernassino, c’è Costa, 30 anime e un bar trasformato in monastero buddista, frequentato da thailandesi.

Un luogo pieno di fascino, un po’ surreale. Una sorta di mondo a sé stante, dove tutti si conoscono e dove si vive decisamente in pace. 

Ultimo aggiornamento: 16 Agosto, 15:34 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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