Addio Davide, capitano e gentiluomo

Lunedì 5 Marzo 2018 di Mimmo Ferretti
Davide Astori

Facile dirlo, adesso. Adesso che le lacrime scendono senza fatica e il cuore si strizza dentro il petto. Se ne vanno sempre i migliori, giusto? Ecco, Davide Astori era davvero un migliore. Nulla di scontato, nel suo caso. Nulla di gratuito. Un'etichetta che gli ha regalato chi l'ha conosciuto; anzi, vissuto, e che oggi si dispera senza paura di mostrarsi debole. I suoi compagni di squadra, di ogni sua squadra, innanzi tutto. No, non c'entra niente il valore in campo. Migliore per quello che Davide dava quotidianamente al gruppo. Tipo il suo sorriso. Perenne. La sua professionalità, poi. La sua educazione. Uno che chiedeva ogni cosa per favore e che ringraziava pure per la minima sciocchezza. Dote rara, credeteci, in un mondo, quello del calcio, che azzera i valori comuni. Migliore per una questione di comportamenti, con chi lavorava con lui e con chi lavorava per lui. 

UN GIGANTE
Un gigante. E non solo per via del suo fisico. Un gigante per come sapeva stare al mondo. Il calcio, la sua vita. Fin dai tempi in cui, bambino o poco più nato e cresciuto nella provincia bergamasca, aveva cominciato a giocare nel Milan, complicato trampolino di lancio verso il professionismo. La Cremonese, poi Roma e Cagliari prima di arrivare a Firenze, e alla maglia della Nazionale. Il calcio, non solo la sua vita. Designer di fama mondiale, calciatore nel tempo libero, aveva scritto sul suo profilo twitter. «Ho la passione per il designer, mi piacciono le mostre, i negozi di arredamento vintage: mio fratello, che è architetto, mi ha contagiato», aveva raccontato qualche anno fa. A Firenze, oltre che a Roma, aveva trovato pane per la sua voglia di scoprire nuove storie e personaggi, sempre mano nella mano con la sua Francesca, magari prima che, due anni fa, arrivasse Vittoria. A Cagliari, dove era rimasto per sei anni prima di trasferirsi nella Capitale, aveva aperto un teatro nella zona del Poetto e una gelateria, ricevendo in cambio la stima e l'affetto sincero di un popolo poco incline a lasciarsi andare. Un uomo di altri tempi, ricordano i suoi colleghi. E professionista eccellente, aggiungono. Non si diventa capitani di una squadra, del resto, se non si mostrano valori reali anche senza avere gli scarpini ai piedi. 

LA FASCIA
A Firenze, Davide aveva raggiunto la sua dimensione ottimale, e lì avrebbe chiuso la sua storia di calciatore: la fascia al braccio come premio alla carriera, considerati i suoi 31 anni.

Sempre spesi a difendere (letteralmente...) la propria squadra, possibilmente con la maglia numero 13, quella di Alessandro Nesta, il suo idolo. In Nazionale c'era arrivato piuttosto tardi ma, a giudicare dai ricordi (commovente quello di Gigi Buffon), ci aveva messo un attimo a farsi voler bene. Perché lui, dicono, era come lo vedevi: una bella persona. Duro, spigoloso ma corretto in campo; gentile, perfino tenero fuori. Un leader silenzioso. Uno di quelli abituati a discutere ma non a urlare. Ad aiutare chiunque avesse bisogno di una mano, raccontano. Un ragazzo così, è scontato scriverlo, avrebbe meritato tutto tranne che morire in una stanza d'albergo a centinaia di chilometri dalle sue donne. La doppia luce della sua breve vita.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci