Le stragi di Tito e i segreti nascosti nella "nuova" foiba

Lunedì 31 Agosto 2020 di Maurizio Bait
Le stragi di Tito e i segreti nascosti nella "nuova" foiba
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TRIESTE La zona è di straordinaria suggestione ambientale e il suo simbolo turistico è un'orma di orso, visto che i plantigradi ne sono abituali frequentatori. Ma a tanta bellezza naturale fra foreste, torrenti e brughiere, si contrappone una memoria storica che parla di atrocità sommarie, stragi senza processi, sanguinosi regolamenti dei conti di massa. 

ESECUZIONI
Siamo a Kocesvki Rog, non lontano dalla città di Novo Mesto nella Slovenia meridionale e in prossimità del confine con la Croazia. È una zona carsica la cui superficie appare segnata da infinite teorie di abissi, crepacci, inghiottitoi serrati nel muschio e nel sottobosco. Alcune di queste cavità rocciose conservano i resti di migliaia di vittime trucidate dai partigiani comunisti titini alla fine della seconda guerra mondiale: si stima che in questi abissi siano finiti 14mila giovani, ma anche donne e altre persone per lo più slovene, seppure non manchino morti serbi, croati e montenegrini, uccisi con un colpo alla nuca e gettati negli abissi. La foiba con circa 250 morti quasi tutti attorno ai vent'anni è l'ultimo ritrovamento di questa tragica contabilità post-bellica. Erano anticomunisti, oppositori del maresciallo Tito. Accomunati da quella contrarietà al nuovo corso comunista che il conflitto aveva attribuito alla Jugoslavia. Per lo più, in ogni caso, questi morti provenivano dalle file dei Domobranci, ossia la Guardia territoriale slovena anti-titina costituita nel settembre 1943 all'indomani dell'armistizio di Badoglio: i tedeschi li armarono erano circa 13mila volontari consegnando loro quanto sequestrato ai soldati italiani dopo il ribaltone dell'8 settembre e li addestrarono con istruttori delle Ss.

ATROCI DESTINI
Il loro destino è per certi versi simile a quello dell'armata cosacca in Carnia, che a dispetto della garanzia manifestata dal Terzo Reich di una terra promessa a ridosso del Friuli, a fine guerra fu consegnata con seguito di donne e bambini ai russi di Stalin e liquidata senza pietà in breve tempo nonostante le rassicurazioni ricevute dalle autorità militari britanniche. E se per molti cosacchi, passati dalla Carnia alla Carinzia, la decisione fu il suicidio nelle acque della Drava pur di non cadere in mani sovietiche, i Domobranci furono raccolti in un campo a Viktring, sempre in Carinzia, dai soldati dell'8. Armata britannica. Il loro destino si compì alla fine del maggio 1954, allorché Londra stabilì di consegnarli ai titini vincitori. L'Ozna, la polizia politica comunista nata proprio per eliminare qualsiasi opposizione al nascendo regime di Tito, non perse tempo e organizzò rapide esecuzioni di massa, facendo poi sparire i cadaveri nelle fosse comuni carsiche fra le quali quelle di Kocevski Rog.

Occhio alle date: proprio in quelle settimane Trieste e Gorizia subivano l'occupazione del IX Corpus dell'Esercito di liberazione jugoslavo, con il corollario di infoibamenti e altre atrocità ai danni di italiani non necessariamente fascisti o collaborazionisti. Barbarie delle quali la storia dopo lunga rimozione presenta oggi una lucida memoria. Barbarie che a Trieste cessarono al sospirato arrivo degli Alleati dopo 40 interminabili giorni. I primi a farsi vedere furono reparti neozelandesi, soldati venuti letteralmente dagli antipodi della terra e salutati dai giuliani come autentici liberatori.

GLI APOLIDI
Ma torniamo ai Domobranci. Non tutte le vittime e non tutti i perseguitati erano fiancheggiatori di Hitler. Non mancavano gli slavi bianchi che respingevano l'ideologia comunista in quanto di estrazione laica o più spesso cristiana. Un caso particolare emerse, in quei frangenti storici, proprio nell'unico punto di tutta l'Europa dove vivono contigue le grandi culture del continente: la latina, la slava e la tedesca. Quel punto insiste sulle Alpi Giulie, sulla Val Canale e le vallate contermini. Sulla Piana di Fusine, ora divisa fra Friuli e Slovenia, nel 1945 gli slavi bianchi si ritrovarono senza patria e letteralmente apolidi: la Jugoslavia non li voleva e anzi li minacciava e perseguitava in quanto non comunisti. Per converso l'Italia uscita dalla tragedia bellica li guardava con sospetto in quanto sloveni. Le cose si sistemarono dopo lungo tempo e oggi c'è ancora qualche vecchio testimone di quegli anni. Un nipote di quei bianchi perseguitati, Igor Jelen, è professore di geografia politica all'Università di Trieste e nel 2006 ha pubblicato un libro rivelatorio intitolato La valle dei tre confini. Merita infine ricordare la denuncia delle stragi dei bianchi contenuta in un libro del 1975, curiosamente l'anno del Trattato di Osimo che segnò in via definitiva il confine orientale: a firmare la pubblicazione furono Edvard Kocbek, fiero dissidente sloveno e leader cristiano-sociale, e Boris Pahor, il celebre scrittore triestino di lingua slovena che ha appena compiuto 107 anni. La polizia jugoslava mise all'indice tutti i libri di Pahor e gli proibì l'ingresso sul territorio nazionale. Il veto riguardò anche la moglie dello scrittore, Radoslava Premrl, sorella di un eroe partigiano sloveno trucidato dai nazifascisti.
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