Terremoto in Turchia, il 32enne Francesco Cicirello dei vigili del fuoco di Treviso: «Ho visto viali trasformati in cimiteri»

Martedì 21 Febbraio 2023 di Maria Elena Pattaro
Terremoto in Turchia, il 32enne Francesco Cicirello dei vigili del fuoco di Treviso

TREVISO - «Per una settimana abbiamo scavato sotto le macerie alla ricerca dei dispersi, con i loro familiari che vegliavano giorno e notte accanto ai palazzi distrutti. Purtroppo abbiamo trovato solo corpi. Compreso quello del nostro connazionale Alessandro Zen». L'ingegner Francesco Cicirello, 32 anni, è rientrato sabato sera dalla Turchia. È il funzionario dei vigili del fuoco di Treviso che ha coordinato il primo contingente Usar Veneto e Friuli Venezia Giulia inviato nel Paese insieme al personale sanitario e ai volontari della Protezione civile per aiutare la popolazione colpita dal terremoto. La squadra di 15 operatori guidata da Cicirello era partita una settimana fa e ha operato in diverse zone tra le più colpite dal sisma, che finora ha provocato più di 45mila vittime e distrutto 264mila edifici. Il giovane funzionario, siciliano di Alcamo (Trapani) e dal 2020 in servizio a Treviso, era alla sua prima esperienza in una calamità naturale. Fresco di qualifica Usar (Urban Search and Rescue, ovvero ricerca e soccorso in ambito urbano), Cicirello ha coordinato le squadre internazionali di ricerca dei dispersi ad Antiochia, nella parte sul del Paese, quasi al confine con la Siria.
Che situazione avete trovato?
«Devastante. Intere zone della città sono state spazzate via. Il terremoto ha fatto crollare palazzi di 7 piani o più. Quelli che sono rimasti in piedi sono pericolanti e andranno abbattuti. Ci sono edifici con oltre 70 appartamenti da cui non è stato tirato fuori nessuno. Dove c'erano condomini, negozi, viali alberati adesso ci sono cumuli di macerie trasformati in cimiteri. Noi ci spostavamo seguendo le coordinate satellitari, ma di alcune vie non restava nulla. È stato spiazzante».
Quale aiuto avete fornito?
«Siamo stati impegnati in diverse attività. In sei, me compreso, ci siamo occupati del coordinamento delle squadre Usar provenienti da vari Paesi, tra cui l'Italia. Gli altri colleghi invece hanno operato sul campo. Ci è stata assegnata una palazzina di sette piani fuori terra, da cui in precedenza erano state estratte due persone vive. Noi purtroppo abbiamo trovato solo corpi. Uno di noi, su richiesta dell'ambasciata italiana, ha preso parte alle ricerche di Zen».
Come si affronta la ricerca dei dispersi?
«Quando scavi devi essere preciso, andare a colpo sicuro. I cani molecolari circoscrivono la zona seguendo le tracce ma va fatto anche un accurato esame delle planimetrie degli edifici e un lavoro di raccolta delle informazioni. Nel caso di Zen, per esempio, sapevamo in quale hotel alloggiava ma servivano innanzitutto le conferme che si trovasse lì al momento del crollo e poi dovevamo restringere il campo in modo da fare ricerche mirate».
Una corsa contro il tempo in cui non sempre si vince..
«Noi interveniamo ipotizzando sempre che la persona sia viva. Dentro di te sai che ogni ora che passa si riducono le probabilità di sopravvivenza per chi è rimasto sotto le macerie. Ma come vigile del fuoco hai il dovere morale di trovare quella persona. Se la tiriamo fuori viva facciamo i salti di gioia, se troviamo un corpo sappiamo che comunque c'è qualcuno che lo aspetta. Ognuno ha diritto a una degna sepoltura. Per questo non abbiamo mai mollato: le squadre si alternavano in turni di otto ore, c'era a malapena il tempo di riposare».
I parenti dei dispersi che cosa vi chiedevano?
«Di non smettere di cercare. In tanti si accampavano vicino ai palazzi crollati per seguire da vicino le operazioni, sperando nel miracolo. C'è chi ci ha offerto persino cibo e acqua anche se non ne avevamo bisogno».
Ingegnere, qual è stata la cosa che l'ha colpita di più?
«La folla di senzatetto. Vicino al nostro campo base, all'Hatay Stadium, c'era un campo profughi con circa 200 tende: ognuna ospitava almeno 15 sfollati. Sappiamo bene che non riavranno presto una casa. È stato toccante vedere i bambini che giocavano a pallone nonostante tutto e gli adulti che si accalcavano per prendere coperte e viveri».
Ci sono stati anche momenti belli?
«Sì, uno in particolare: l'applauso spontaneo della gente all'aeroporto, prima che ci imbarcassimo per rientrare in Italia. È bastato quel gesto di gratitudine a ripagarci di tutte le fatiche. Non lo dimenticherò mai: è in momenti come quelli ti che ti rendi conto di essere comunque di conforto, anche in mezzo alla disperazione».

 

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