A 85 anni Giorgio Maria Bortolozzi è ancora un campione d'atletica: «Non mi perdo una gara»

Lunedì 25 Luglio 2022 di Mauro Ferraro
Giorgio Maria Bortolozzi (con la maglia gialla) è un campione d'atletica a 85 anni

TREVISO - A 85 anni ha lo spirito di un decatleta: salta, lancia, si cimenta persino negli ostacoli. Viaggia in tutto il mondo. Basta il richiamo di un campionato di atletica, e lui parte, «sempre da solo, aereo e via». L'ultima tappa, in ordine di tempo, è stata Tampere, in Finlandia, dove ha vinto tre medaglie ai Mondiali master.
«Primo nell'alto, secondo nel lungo e nel triplo spiega Giorgio Maria Bortolozzi, classe 1937, decano degli atleti trevigiani - Mi ha battuto un tedesco, un certo Fischer. L'ultima volta c'eravamo incontrati 10 anni fa ed era finita allo stesso modo. Ormai ci conosciamo bene: ritrovarsi in pedana, è confortante. Alla nostra età non si sa mai. Anche il Covid ha colpito duro».
Nell'alto ha fatto come Tamberi.
«Io e uno sloveno siamo arrivati a 1.13. A quel punto siamo andati dai giudici e, urlando come pazzi golden medal, golden medal', abbiamo chiesto l'oro per entrambi. Come Gimbo a Tokyo».
Tiene il conto di medaglie e primati?
«Metto da parte tutto: risultati, record, ritagli di giornale. Nel 2022 ho fatto cinque record italiani: alto, lungo e triplo indoor; giavellotto e alto all'aperto. Di un primato vado particolarmente orgoglioso. Risale al 1984: 13.70 nel triplo, primato della categoria M45. Sono passati quasi 40 anni e ancora nessuno è riuscito a batterlo».
Con l'amico Lamberto Boranga, indimenticato portiere in serie A, come va?
«Lui ha cinque anni meno di me, si è operato ad un ginocchio e ha un po' tirato i remi in barca. Ci conosciamo da quando eravamo giovani: io ero sottotenente medico a Orvieto e lui è arrivato in caserma come atleta. Lo prendevamo in giro perché era il terzo portiere della Fiorentina dopo Sarti e Albertosi. Poi ha fatto una gran carriera».
Lei nel 2016 ha fatto parlare per una questione di doping.
«Assumevo a scopo terapeutico il Dhea. E' un ormone che il corpo umano produce di suo, ma che con l'età tende a calare. Io ne ero particolarmente carente. Sono stato trovato positivo, mi hanno dato 4 anni di sospensione e la vicenda ha avuto uno strascico penale che si è protratto sino allo scorso novembre».
Com'è finita?
«Sono stato assolto con formula piena per non aver commesso il fatto. Il tribunale ha riconosciuto le motivazioni mediche che mi hanno spinto ad assumere il Dhea. Del resto, se la terapia ormonale è accettata per le donne, perché non dovrebbe esserlo per gli uomini?».
Nel 2017 si è dato anche al basket.
«Sono stato coinvolto da alcune vecchie glorie. C'era anche Flaborea. E' stato divertente, siamo arrivati quarti ai Mondiali di Montecatini. L'anno dopo ho avuto un malessere: occlusione coronarica e due stent. Ho ripreso a fare atletica».
Non capita spesso che un atleta con trascorsi nello sport d'alto livello continui a dedicarsi all'attività agonistica da anziano.
«Nel nostro mondo c'è un po' di fanatismo. Succede quando scopri lo sport in un'età non più giovane e magari, solo per un fatto anagrafico, diventi improvvisamente una stella. Per me non è così. Io mi impegno, ma so che devo convivere con i miei acciacchi. Capita che mi debba fermare per qualche periodo, ma poi recupero subito la forma. Tanti anni di carriera mi hanno regalato un piede che è ancora elastico».
Nel 1962 è stato protagonista di una situazione probabilmente irripetibile: due trevigiani, lei e Magalì Vettorazzo, campioni italiani di salto in lungo.
«Ci chiamavano i fidanzatini d'Italia. Ma non lo eravamo. Gareggiavamo per la stessa squadra, il GAT Treviso fondato da mio padre Menenio, ma non ci vedevamo di frequente. Io lavoravo e arrivavo ad allenarmi alle Stiore quando non c'era più nessuno. Già allora ero un autodidatta. Non ho mai avuto tanta fiducia negli allenatori. L'unico da cui ho imparato qualcosa è stato Vittori, pur sapendo che certi metodi andavano bene per Mennea e non per altri».
Ha chiuso la carriera a livello assoluto con un record di 7.51.
«Ho vinto due titoli italiani assoluti: nel '64, dopo quello del '62. Mi dilettavo anche nel triplo, dove prima dell'arrivo di Gentile l'Italia non aveva grandi specialisti. Qualche decennio dopo, mio figlio Mario ha fatto di meglio: 7.55. Mentre nel triplo, in una gara un po' improvvisata per un campionato di società, mi ha eguagliato al centimetro: 15.41. Nel 2020, dopo la pandemia, abbiamo ripreso insieme: ad Arezzo abbiamo vinto entrambi il titolo italiano. Io tra gli ottantenni, lui tra i quarantacinquenni».
Lei ha vestito 8 maglie azzurre, ma non ha mai partecipato né ad un'Olimpiade né ad un Europeo.
«Nel 1962 chiesi alla Federazione di essere iscritto agli Europei di Belgrado: ero pronto a pagarmi la trasferta, ma non se ne fece nulla. Nel 1963 arrivai quarto all'Universiade di Porto Alegre e poco dopo ottenni lo stesso piazzamento ai Giochi del Mediterraneo di Napoli. In pedana non riuscivo a ritrovarmi. Feci quattro nulli. Al ritorno a casa scoprii di avere la varicella. Per provare a qualificarmi per l'Olimpiade di Tokyo, lasciai da parte anche il basket. Non bastò. Ma non ho rimpianti: l'atletica resta un grande amore».

 

Ultimo aggiornamento: 16:22 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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