Monastier, Carlo Callea: «Così la mia protesi sostituì il bastone»

Martedì 16 Maggio 2023 di Edoardo Pittalis
Carlo Callea: «Così la mia protesi sostituì il bastone»

MONASTIER (TREVISO) - L’uomo che ha cambiato il mondo italiano delle protesi dell’anca e del ginocchio è venuto a Nordest molti anni fa da Roma, da via Merulana, quella del “pasticciaccio brutto” di Gadda. Carlo Callea, 77 anni, guida una equipe che fa 1500 interventi all’anno. Oggi la casa di cura dove lavora, la “Giovanni XXIII” di Monastier, nel Trevigiano, per le protesi è la prima nel Veneto e la quarta in Italia su 744 strutture certificate dal Ministero della Salute. Davanti ha soltanto colossi come gli istituti ortopedici Galeazzi di Milano e Rizzoli di Bologna. Da cinquant’anni Callea si divide tra Veneto e Friuli, ha operato nei più grandi ospedali del mondo, ha partecipato ai maggiori convegni internazionali del settore. Ha unito la scienza medica alla grande passione per la meccanica, con un ingegnere udinese ha creato le prime protesi di titanio ad avvitamento.

Non dimentica i motori, ha la collezione di “Quattroruote” dal primo numero del febbraio 1956. Due figlie, un nipote, si commuove ascoltando Tchaikovsky. «E ho raccolto i ricordi, mi servono per un libro che non è mai uscito». La sua giornata tipo incomincia quando è ancora buio, alle 4 è sulla cyclette, dopo un infarto deve fare attività fisica. «Poi parto da Udine alle 4,45 e arrivo in ospedale un’ora dopo e alle 6.40 sono già in giro nel reparto, sapere prima degli altri significa dare indicazioni giuste. A quel punto entro in sala operatoria». 


Come è arrivato un romano a Nordest?
«Sono nato all’ombra del Colosseo, mio padre era un militare calabrese, mia madre una crocerossina friulana. Al piano terra c’era un’officina che curava macchine da corsa e già da piccolo sentire i motori mi entusiasmava. Nel 1951 mio padre ha costruito la casa non lontano da Ciampino, con un grande garage, perché anche lui era un appassionato meccanico. La maestra delle elementari veniva praticamente solo per me e mia sorella Francesca. Medie a Roma alla scuola San Filippo Neri: ho ascoltato e servito tante di quelle messe che sono a posto per tutta la vita. Nella zona allora si giravano i film, ricordo le riprese de “La ragazza di piazza San Pietro” con Walter Chiari che nelle pause veniva a giocare a pallone con noi. Al tempo del liceo classico avevo sviluppato la passione per la meccanica: mio padre aveva comprato una “Vespa” praticamente da buttare, l’abbiamo smontata, rimontata e rimessa in moto. Avevo una Due Cavalli vecchissima che rimontavo quasi a occhi chiusi; aggiustavo anche le auto dei compagni».


Non sembrava un predestinato alla medicina? 
«Andavo spesso a trovare mio padre che lavorava al Centro di medicina Aeronautica Spaziale, così ero indeciso tra medicina e ingegneria. Ho scelto la prima, ma senza rinunciare alla meccanica. Per qualche mese mi sono trasferito a Modena dove c’era la Ferrari e andavo tutti i giorni all’autodromo anziché studiare. Ho conosciuto la nebbia, una cosa che a Roma non esisteva. Il primo esame che ho fatto era Fisica col professor Mario Ageno, uno dei padri della Biofisica, era il terrore dell’università: mi bocciò e tornai da mio padre convinto di non essere all’altezza, lui mi insegnò che dovevo saper decidere da solo. Intanto, avevo conosciuto Maria Gigliola che sarebbe diventata mia moglie, insegnava lettere».


E l’arrivo a Udine?
«Nelle vacanze del 1970 andai in Friuli a trovare uno zio materno, Marcello, mio padrino di battesimo. Appena laureato mi propose di trasferirmi a Udine e mi presentò una persona che mi affascinò immediatamente: il professor Antonio Motta, primario di ortopedia. Io avevo scartato l’ortopedia perché da bambino ero rimasto colpito dagli ex-voto del santuario del Divino Amore, vicino a Roma: allora tantissimi bambini si ammalavano di poliomielite e certe protesi sembravano quelle dei mutilati di guerra. Motta mi squadrò, disse che avevo il fisico dell’ortopedico e mi prese come assistente volontario in una struttura nuova in Italia: al “Gervasutta” dove creò i reparti di riabilitazione e di chirurgia dell’arto. Lo vedevo operare e capivo che in lui la conoscenza della parte meccanica arricchiva enormemente la potenzialità del chirurgo. L’arma vincente, però, era la parte umana. Motta è stato un innovatore: tra i primissimi a impiantare protesi per anca e ginocchio; il primo a utilizzare in Italia una protesi d’anca sperimentata dal tedesco Mittelmaier che aveva come parte superiore un elemento troncoconico avvitato. Era il punto di partenza».


Come si è arrivati alle nuove protesi? 
«Conoscendo la mia propensione per la meccanica, Motta mi propose di realizzare una protesi al ginocchio col principio dell’avvitamento. Per costruire il prototipo sono andato da un meccanico che era su una sedia a rotelle, ma aveva organizzato la sua officina con un unico motore che faceva girare cinquanta pulegge. A quel punto bisognava perfezionare e ci siamo indirizzati all’officina dell’ingegner Lualdi che costruiva elicotteri e fabbricava anche parti di protesi. È stato il figlio Gabriele a portare avanti il progetto, Motta supervisionava e nel 1979 è nato il primo pezzo, ne hanno parlato tutti i giornali: una protesi di ginocchio non cementata, ma di titanio, ad avvitamento, che scivolava! La sperimentò la signora Amelia di Portogruaro. Cominciò per noi un periodo di notevole impegno in Italia e all’estero. Era la protesi MC, Motta-Callea, alla quale è seguita la ancora più innovativa protesi d’anca, la MCL: Motta-Callea-Lualdi».


Il professor Motta è morto improvvisamente… 
«Una domenica, era il primo settembre, morì d’infarto a 51 anni durante una passeggiata col figlio in montagna. Non potevo mollare, lo dovevamo alla sua memoria. Il nuovo primario ci diede tutta la possibilità di portare avanti l’attività scientifica, venivano a operarsi da tutta Italia. Arrivammo a perfezionate altri modelli di protesi, ci invitavano ai principali congressi, sono andato a operare dal Portogallo all’allora Unione Sovietica. Ma c’è stata un’altra mazzata terribile, proprio quando dovevo prendere la guida del reparto, nel 1996, la politica ne decretò la chiusura: c’erano 500 persone in attesa di protesi. Pensavo di lasciare, quando è arrivata la chiamata di Gabriele Geretto, l’amministratore dell’ospedale di Monastier. Venne a parlare un giorno intero con me e con Lualdi: si doveva ripartire dal principio, ma col vantaggio di disporre di un grosso patrimonio di esperienza internazionale. Ero in Italia quello che aveva più esperienza nella chirurgia protesica e Geretto, da manager lungimirante, era disposto a investire in attrezzature e in medici. La risposta è stata immediata, si è moltiplicato il numero degli interventi».


È iniziata allora la seconda vita di Carlo Callea?
«Monastier ha diviso in due parti la mia vita professionale: i primi 25 anni di ispirazione tecnico-scientifica, nei secondi 25 anni ho sviluppato la parte umana mettendola al servizio di quella tecnica. Era la lezione di Motta. La protesi ha sostituito il bastone, si è conquistato molto nella scelta e nella qualità dei materiali: oggi si usano, oltre al titanio, elementi d’attrito in ceramica, di una durezza estrema; non si consumano».


Callea è stato anche un paziente?
«Ho una mia storia di patologia: nel 2002 ho fatto un intervento radicale di prostata per tumore; anche un’operazione d’urgenza per pancreatite. Per un periodo lavoravo a Monastier, Udine e Trieste, facevo da solo 1500 protesi all’anno, ma non mi rendevo conto che gli anni passavano. Nel 2014 una mattina a Udine stavo andando a vedere dei pazienti operati, quando ho avvertito un dolore posteriore e la sensazione di vedere doppio. Al pronto soccorso ho avuto un infarto mostruoso, mi hanno ripreso in tempo. Non mi sono fatto mancare niente, nel 2016 alla vigilia di Natale ho subito un intervento per tumore al colon».

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