Ricky Pittis: «Col basket nel cuore grazie a papà e mamma, figli del Nordest»

Lunedì 24 Dicembre 2018 di Edoardo Pittalis
Ricky Pittis
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«Sono nato nella neve, mi sono catapultato al mondo 50 anni fa, qualche giorno prima di Natale, in una bella nevicata a Milano. Da subito ho cercato di dare qualche pensiero ai miei poveri genitori: alla nascita mi hanno diagnosticato un difetto interventricolare. Oggi si opera in poco tempo, ma allora nel 1968 non c'erano le stesse conoscenze di adesso: hanno dovuto aspettare e sperare fino a che io potessi sopportare un intervento a cuore aperto. Mi ha operato nel 1974, Gaetano Azzolina al quale devo molto: non era semplice, lui aveva la avuto la fortuna di poter imparare in America e si era dedicato ai bambini. Andò bene e da lì ho avuto una vita normalissima».
Riccardo Pittis, nato a Milano da padre friulano e madre veneta, è stato uno dei più forti giocatori del basket italiano, il secondo per trofei vinti dopo Dino Meneghin. «Ho giocato per trent'anni, venti da professionista. Ho smesso a 36 anni. All'inizio lo chiamavano Acciughino per la magrezza e per i 2 metri e tre di statura, ha incominciato nel 1984 all'Olimpia di Milano, è passato nel 1993 alla Benetton di Treviso. Ala, quasi settecento partite senza saltarne una, quasi settemila punti. Sette scudetti tra Milano e Treviso, una serie infinita di Coppe e supercoppe europee e intercontinentali. In Nazionale 118 incontri e oltre mille punti; due argenti agli Europei (1991 e 1997), un oro ai Giochi del Mediterraneo (1993).
Come è incominciata?
«Mamma Elena era casalinga e veniva dal Livenza, papà Sergio tappezziere artigiano, un mulo friulano che lavorava tanto. Mio padre era arrivato a Milano da San Giorgio di Nogaro nel 1947 abbandonando con le due sorelle e un fratello quel Friuli difficile. Il nonno era andato in Belgio come minatore e non è più tornato, così mio padre ha dovuto fare l'uomo di famiglia a 15 anni».
Come è stata l'infanzia sotto la minaccia del cuore malato?
«Mi sono reso conto solo quando sono entrato in ospedale per l'operazione: ho scoperto la mia cicatrice da 40 punti sul petto ho capito che era successo qualcosa di davvero importante. La prima cosa che Azzolina consigliò ai miei genitori fu di farmi fare sport, non una vita protetta. Quel consiglio ha cambiato la mia vita. Mio fratello Carlo giocava a basket. Io come tutti i figli minori volevo emulare mio fratello e andavo a tutte le partite».
Subito il basket nella sua vita?
«Ho incominciato per disperazione di allenatori e accompagnatori che, stanchi di trovarmi in mezzo alle scatole, a ogni pausa mi buttavano in campo per tirare. Mio padre non perdeva una partita, mia madre non perdeva un allenamento. Ho iniziato col minibasket in prima elementare, ero già il più alto della classe, imparavo in fretta e l'Olimpia mi ha subito inquadrato: dovevo allenarmi con quelli che erano quattro anni più grandi di me e tra un bambino e un ragazzino la differenza è enorme. A 16 anni ero già in prima squadra, la mia prima presenza risale al gennaio 1985 a Milano, sedici anni appena compiuti».
Il ricordo più bello di Milano?
«Era la mia città natale, era la squadra dei sogni in cui poter crescere e con la quale sono arrivato in serie A. Ho avuto l'enorme fortuna di entrare nella squadra simbolo degli ultimi 40 anni: giocavo con i miei idoli, D'Antoni, Meneghin Il ricordo è legato alla terza partita di finale 1987 che ha rappresentato la mia consacrazione nel basket professionistico. Contro il Caserta entrai in un momento in cui la squadra era sotto e con 10 punti cambiai l'esito della partita che decise lo scudetto. Lì è nato il vero Pittis. Devo molto a D'Antoni e Meneghin, campioni veri e persone eccezionali. E a Dan Peterson, un genio, un mito che ancora oggi a 83 anni ogni volta che lo vedo mi ringrazia perché gli ho fatto vincere lo scudetto nell'ultimo anno della sua carriera».
Poi il trasferimento a Treviso
«È stata una scelta forzata, l'Olimpia Milano nel 1993 aveva un buco di bilancio di molti miliardi e non poteva fare altro che vendere: io ero il pezzo più pregiato, valevo 11 miliardi di lire e la Benetton aveva i soldi. E' stata la mia grande fortuna, a Treviso ho giocato per undici stagioni e il ricordo più bello è legato al primo scudetto nel 1997, contro la Fortitudo. Dopo 25 anni di vita trevigiana mi sento molto più di Treviso che milanese».
E l'esperienza con la Nazionale?
«Da bambino avevo tre sogni: diventare un professionista, vincere e giocare in azzurro. Quando indossi la maglia della Nazionale senti qualcosa di diverso; quando ascolti l'inno con la maglia azzurra è uno di quei momenti che non dimenticherai. La prima partita l'ho fatta nel 1989, l'ultima nel 2003 ed è stato un rientro improvviso perché avevo deciso di lasciare la maglia azzurra nel 1997 dopo l'argento agli Europei di Barcellona. Ma c'era da qualificarsi per un nuovo Europeo».
Perché ha chiamato lo sport il mondo delle palline colorate?
«Perché è un mondo che non è reale, ti pagano per divertirti, fai una vita da privilegiato. Certo, esistono parti nascoste meno piacevoli di quanto può sembrare, ma sicuramente più piacevoli rispetto alle fatiche delle persone normali. E quando smetti ti rendi conto che la realtà è diversa».
E' stato così difficile smettere?
«Da un giorno all'altro cambia la vita in modo radicale. Vai in crisi di identità, vai in astinenza da adrenalina, non hai più le emozioni forti. È un momento estremamente critico».
Ora è alla sua seconda vita
«La mia seconda vita è passata attraverso una serie di fallimenti: prima ho provato ad aprire ristoranti, bella esperienza ma sconsigliabile se non sei del settore; poi nel mondo immobiliare, ma forse era il momento più sbagliato nella storia del Novecento! Poi nell'energia rinnovabile Quando sbagli due, tre volte, fermi tutto, vuoi e devi capire: ho incominciato a farmi domande anche scomode. La svolta è stata un libro di Anthony Robbin, il più famoso motivatore emozionale al mondo: mi ha aperto una porta, mi ha dato in mano il libretto delle mie intenzioni che non avevo mai letto. Grazie alla mia esperienza, al mio vissuto e con le nuove conoscenze potevo pensare a qualcosa che fosse per me il nuovo lavoro. Il primo passaggio è stato casuale, anche se non credo al caso: un amico mi ha chiesto di fare un intervento come testimonial di una banca, per la prima volta in vita mia dovevo fare tutto da solo. Andò così bene che mi suggerì di farlo per lavoro e sono diventato uno speaker motivazionale e mental coach, ma il basket resta l'esperienza che mi permette di fare il nuovo lavoro. Non riesco a staccarmi del tutto, faccio pure le telecronache».
Continua ad avere sogni?
«Ne ho eccome! E non ho voglia di smettere di averli. Devono esserci perché ho avuto una vita da sogno e continuo ad averla».
Edoardo Pittalis
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Ultimo aggiornamento: 25 Dicembre, 10:56 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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