Peste suina, ora tremano gli allevatori. Confagricoltura: «In ballo un settore che nella Marca vale 50 milioni l'anno»

Lunedì 30 Maggio 2022 di Mauro Favaro
Peste suina, ora tremano gli allevatori - Foto di Noah Meinzer da Pixabay

TREVISO - La peste suina spaventa gli allevatori. Dopo i casi registrati nei cinghiali tra Roma, la Liguria e il Piemonte, l'Usl della Marca ha iniziato a formare i cacciatori per abbattere gli ungulati. L'obiettivo è ridurre il rischio che il virus passi dagli animali selvatici ai maiali degli allevamenti.

Gli addetti ai lavori sono i primi a chiedere di fare presto. E nel frattempo si difendono con recinzioni, anche doppie, disinfezioni, ingressi contingentati nelle strutture e la creazione di zone pulito-sporco, che a livello generale abbiamo imparato a conoscere con il Covid.

SETTORE A RISCHIO

«C'è in ballo un settore che solamente nella Marca vale 50 milioni l'anno, senza contare tutto l'indotto» scandisce Rudy Milani, trevigiano di Zero Branco, presidente della federazione nazionale suini di Confagricoltura. La peste suina non è trasmissibile agli essere umani. Questo va evidenziato in modo chiaro. Un'eventuale sua diffusione, però, rappresenterebbe un terremoto per il mondo della carne. Con tutto ciò che ne consegue a livello economico. «Sarebbe un cataclisma» dice Milani. Nella Marca vengono allevati circa 150mila suini. Ci sono 300 allevamenti industriali. E più di mille tenuti per auto-consumo o semplicemente per passione. Fino ad oggi qui non sono stati confermati casi di peste suina tra i cinghiali. Ma si punta a giocare d'anticipo. In primis perché un allargamento dei contagi porterebbe subito al blocco totale degli allevamenti coinvolti, come già successo in altre parti d'Italia. «Dopo i casi sui cinghiali scoperti nella zona di Alessandria -spiega il presidente della federazione suini- Paesi come la Cina, Taiwan e il Giappone hanno sospeso l'importazione di carne dall'Italia. E già questo si traduce in una perdita di 20 milioni di euro a settimana». C'è poi una pesantissima onda lunga. La carne prodotta nei comuni che rientrano nelle zone rosse, come quella già vista anche a Roma, non può essere commercializzata fuori dall'Italia. «Ed è chiaro che ad esempio un prosciuttificio preferirà andare a rifornirsi altrove -allarga le braccia Milani- per questo è fondamentale lavorare per fare in modo che la malattia resti confinata alla sfera del selvatico, cosa che consente di riuscire a mantenere una parte dell'export».

I NUMERI NON MENTONO

Ecco perché oggi più che mai si guarda ai cinghiali. È una questione di statistica: se si riduce il loro numero, si riducono anche i rischi di contatto e quindi di contagio degli animali degli allevamenti. Le stime degli allevatori dicono che nel trevigiano ci sono oltre 10mila cinghiali liberi. Un calcolo preciso è impossibile. Ma la dimensione è chiara. Ed è considerata davvero troppo elevata per quanto riguarda il rischio epidemiologico. Le linee guida della Regione indicano la necessità di eradicare i cinghiali. Milani non arriva a tanto. Ma sono tutti concordi sul fatto che bisogna contenere il numero di cinghiali. «Si deve eradicare la malattia -sottolinea il presidente della federazione- attualmente ci sono in media oltre 14 cinghiali per chilometro quadrato. Nessuno vuole uno sterminio, ma dovrebbero essere meno della metà». Fino ad ora sono state investite parecchie risorse nei piani di contenimento, portati avanti in particolare dalla Provincia negli anni prima della riforma istituzionale. Come mai si è arrivati a una situazione del genere? «Sono anni che chiediamo attenzione su questo tema. Ma non siamo mai stati ascoltati -conclude Milani- se in Veneto ci sono circa 100mila cinghiali liberi, possiamo immaginare che ogni anno ne nascano altri 25mila. Di conseguenza se un ente ne abbatte mille in un anno, questo non rappresenta un grande passo verso il contenimento del numero totale, Anzi».

Ultimo aggiornamento: 17:06 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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